Federico Pani

Federico Pani

MoneyController

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Il salvataggio di BpVi e Veneto Banca

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  • Banche e prodotti bancari
Scritto il 28.06.2017

È stata una riunione lampo, quella di domenica, durata venti minuti per decidere il destino delle due Venete. Poi, il via libera: liquidazione coatta amministrativa. Così, il decreto-salvataggio di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca porta ora la firma del Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Parlare di un semplice salvataggio non è esatto: le due banche sono ora parte del gruppo Intesa San Paolo, il terzo polo del trilaterale tecnico, composto da governo italiano e autorità europee, che ha ne ha deciso le sorti. L’ultima tappa significativa della vicenda è avvenuta venerdì scorso, quando la Banca Centrale Europea annunciava il rischio dissesto («failing or likely to fail»). Un segnale inequivocabile: le banche erano da ritenersi fallite. L’annuncio arrivava a una settimana dalla decisione della DG Comp (organo della Commissione Europea): stop al piano di ristrutturazione bancaria. La palla è passata, dunque, nelle mani del diritto fallimentare italiano. A questo punto, la forza contrattuale di Matteo Messina, amministratore delegato di Intesa San Paolo, e della sua offerta di acquisizione, è cresciuta a dismisura, fino a diventare per Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, l’unica soluzione possibile: scorporati gli asset deteriorati, il patrimonio finanziario di BpVi e di Veneto Banca è passato in gestione a Ca’ de Sass. Come garanzia, Banca Intesa è riuscita a ottenere 3,5 miliardi per assestare il bilancio a seguito dell’acquisizione e 1,2 miliardi per la gestione degli esuberi. Ma il Tesoro ha avvertito che per l’operazione sono comunque pronti quasi 12 miliardi aggiuntivi, qualora si presentasse la necessità. Non tutti i crediti ritenuti in bonis, infatti, potrebbero godere di buona salute. Banca Intesa, dal suo canto, ha versato una cifra decisamente modica, anzi, simbolica: 1 euro. «Il prezzo di un euro è un prezzo simbolico», ha ricordato Gian Maria Gros-Pietro, presidente del gruppo Intesa San Paolo: «In realtà, le attività che noi riceviamo non sono in grado di coprire l’impegno che prendiamo. I debiti che queste due banche hanno non vanno a carico dei contribuenti». Secondo il Sole 24 Ore, infatti, Ca’ de Sass ha già corretto al ribasso le stime dei dividendi di quest’anno. Ma non si può nascondere che, attraverso la gestione del patrimonio ricevuto, il gruppo guidato da Messina avrebbe già previsto, nel giro di 2-3 anni, di sfondare la quota dei 4 miliardi di dividendo. Per il primo ministro Gentiloni si è trattato di un «intervento necessario», volto a prevenire «i rischi evidenti di un fallimento disordinato». Il ministro Padoan ha confermato: non ci sono state alternative. Il salvataggio delle due banche venete rappresenta, ha fatto sapere Banca Intesa in una nota, la messa in sicurezza di 50 miliardi di euro: poco meno dell’intero export regionale 2016 della regione Veneto. Bankitalia ha aggiunto che sono oltre 20mila le imprese ruotanti attorno al credito veneto messo in sicurezza e circa 200mila le persone a cui le aziende in questione garantiscono un impiego fisso. E poi ci sono i correntisti e i depositari delle Venete: se la vicenda avesse preso una piega diversa, sarebbero stati costretti a pagarne le conseguenze. Così, almeno, prevederebbe il meccanismo del bail-in: scaricare le perdite sui depositari oltre i 100mila euro e gli obbligazionisti junior. Nulla di tutto ciò: a essere stato intaccato è il fondo salva-risparmi di 20 miliardi, stanziato a dicembre dal governo, in funzione delle ricapitalizzazioni bancarie. Le cifre, perciò, non impatteranno sul deficit nazionale. Per gli azionisti, invece, le cose andranno diversamente: potrebbero arrivare a perdere tutto. I loro diritti, infatti, non sono stati garantiti nell’atto di acquisizione. Poco male, in fondo: è noto il crollo in borsa subito dai titoli della Banca Popolare di Vicenza, passati da un valore di oltre 60 euro a quello di 20-30 centesimi. Il recupero dei crediti deteriorati, separati dagli asset ceduti a Ca’ de Sass, spetterà, invece, a Sga, la bad bank che riuscì a chiudere in attivo la liquidazione del Banco di Napoli. E sarà curioso seguire proprio le vicende della S.p.A. gestita dal Ministero del Tesoro: se, come confida Pier Carlo Padoan, sarà in grado di recuperare, al pari di un creditore paziente, parte dei 5 miliardi assicurati a Banca Intesa per l’acquisizione-salvataggio delle Venete.

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Prevista una forte crescita della Subscription Economy grazie ai Millennials

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 21.06.2017

La Subscription Economy è il nome che viene dato a uno dei settori più promettenti dell’e-commerce. Il solo aspetto che la differenzia dalle tradizionali forme di sottoscrizione o di abbonamento, legati a prodotti e servizi, è semplice: tutto avviene in rete. Qualche numero: in Europa, la media degli abbonamenti mensili di questo tipo va dai 3 ai 5 a persona. In Italia, ci si attesta a 2,2. Ecco, secondo delle previsioni non eccessivamente ottimistiche, nel giro di una manciata di anni, il mercato potrebbe crescere ancora, e di parecchio. Si calcola del 40%, solo in Italia. I dati li fornisce l’azienda fin-tech SlimPay, in una ricerca su scala europea commissionata a Elabe. SlimPay è un’azienda che si occupa di pagamenti on-line tramite addebito diretto. Il paper in questione mostra non solo la diffusione delle sottoscrizioni, ma anche come le preferenze dei consumatori digitali si distribuiscano variamente. Alcuni settori sono quasi scontati: TV, video, musica, software, fitness e trasporti, e basterebbe citare, a proposito, Netflix, Spotify, Sky, BlaBla Car o Enjoy. Altri settori toccati da forme dalla Subscription Economy sono tutt’altro che scontati: cibo, abbigliamento, o specifici set di prodotti come «le lenti a contatto o i rasoi», come riporta il team di Elabe. I protagonisti del cambiamento sono i Millennials, i nati tra il 1980 e il 2000. Sono loro a credere nei vantaggi dei servizi di sottoscrizione digitale: all’idea, cioè, che è più conveniente accedere a un servizio, profilandosi, inserendo le proprie credenziali di pagamento e, a quel punto, scegliere i prodotti che più interessano. Farlo significa: comodità, articoli al dettagli quasi sempre disponibili e – secondo una classica strategia di marketing dell’e-commerce – sconti. Il peso socio-demografico dei Millennials, rimanendo in Italia, è rilevante: sono 11 milioni. La diffusione di internet pressoché totale: 94%. È una generazione che i dati ci confermano social: l’87% è iscritto almeno a un social network e l’85% è dotato di smartphone. Gli accessi a piattaforme di car e bike sharing sono più del doppio, rispetto ai loro genitori. Il mercato della Subscription Economy si distribuisce ancora prevalentemente su forme di servizio in senso stretto. In tutte le classifiche, a svettare sono gli abbonamenti telefonici. Seguono le sottoscrizioni di pagamento o addebito diretto di bollette, tasse e rate dell’assicurazione. A questo punto, comincia il mercato dei servizi legati a TV, video e musica e, subito dopo, quello degli abbonamenti sportivi. La novità senz’altro più promettente riguarda il retail, la vendita al dettaglio. È qui che si combinano gli interessi dei produttori e consumatori: da una parte, ricevere prodotti con regolarità, personalizzati, in tutta comodità ordinando da remoto; dall’altra, avere a che fare con clienti profilati, target su cui indirizzare precise campagne commerciali e, non da ultimo, assicurarsi forme di fidelizzazione nel tempo: un guadagno sicuro, a patto di saper offrire ai clienti il prodotto giusto e, magari, anticiparne i gusti. Gli esempi non mancano. C’è il mercato della cosmesi, con il maschile Dollar Shave Club o il retail shop di prodotti cosmetici femminili BirchBox; c’è il mercato della moda, che va da Zalando, con la sua vasta gamma di prodotti, a Menguin, portale on-line per l’acquisto di smoking, dove il preciso calcolo della taglia viene assicurato dagli algoritmi della piattaforma. Infine, si giunge al mercato del cibo: Love with food provvede a una selezione mensile di alimenti senza glutine o, per gli amanti, fa recapitare veri e propri rifornimenti di junk food; Farm to People offre dei menu mensili molto variegati, tutti accomunati dal meglio che offre la stagione; Blue Apron fornisce pacchi di prodotti porzionati, per darsi da fare ai fornelli nel fine settimana; Cocoa Runners promette ogni mese di recapitarvi a casa i migliori prodotti al cacao al mondo. Arriviamo ora al punto della ricerca commissionata a Elabe più pertinente all’attività di SlimPay: il pagamento in rete. Il 40% dei clienti e-commerce europei ha già memorizzate le credenziali per effettuare accrediti on-line e un ulteriore 10% è pronto a farlo appena se ne presenterà l’occasione. Il campione di intervistati mostra interesse non solo per l’utilizzo della carta di credito/debito – che resta il metodo di pagamento più diffuso – o per un addebito diretto sul conto corrente, ma anche per forme di portafogli elettronici. L’86% tuttavia preferisce metodi di pagamento che prevedono forme di autenticazione, magari suddivise in più passaggi, piuttosto che la possibilità di pagare semplicemente con un clic. Si tratta di una percentuale comprensibile e ad aziende come SlimPay o l’omologa Zuora – che, tra l’altro, si ascrive il merito di aver diffuso il termine di Subscription Economy – deve essere chiaro fin da subito: i pagamenti digitali, prima che smart, devono essere percepiti come sicuri. Da questo punto di vista, i dati emersi dall’indagine di SlimPay sono preziosi, perché indicano, con una certa chiarezza, la direzione che dovranno intraprendere le future società fintech: un sistema di pagamento integrato, capace di garantire comodità e sicurezza, i due fattori fondamentali del successo della Subscription Economy.

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Trump spinge verso la de-regulation del mercato finaziario americano

Scritto il 14.06.2017

L’8 giugno l’amministrazione Trump è passata all’incasso sul fronte finanziario: alla Camera, la maggioranza repubblicana ha approvato un provvedimento per avviare la revisione della legge Dodd-Frank. Il provvedimento, nominato Financial Creating Hope and Opportunity for Investors (e ribattezzato poi Financial Choice Act), dovrà ora venire approvato anche dal Senato, dove i numeri per l’approvazione sono senza dubbio meno scontati. Il «Dodd-Frank Act», un sistema di riforme volto a regolamentare il mondo finanziario statunitense, porta la firma dell’amministrazione Obama e dei due parlamentari democratici Barney Frank e Chris Dodd. Se la riforma voluta da Barack Obama si è mossa nella direzione di una regulation del mercato finanziario, la direzione intrapresa da Donald Trump è di segno opposto: una de-regulation dello stesso o, come si esprimono molti repubblicani, una sua radicale semplificazione. Sulle esigenze di semplificazione è comunque difficile dar torto ai repubblicani: la legge Dodd-Frank ha una struttura piuttosto complessa, divisa com’è in oltre 450 articoli, per un totale di 8mila pagine. La legge definisce norme, restrizioni, limiti, controlli nei confronti di Wall Street e, più in generale, del sistema bancario americano. Una serie di misure, nelle intenzioni degli ideatori, volte a togliere il maggior margine di manovra possibile alla speculazione, individuata come responsabile della crisi finanziaria del 2008. Il sistema ha previsto, tra i suoi interventi più importanti, la creazione di agenzie federali ad hoc come il Financial Stability Oversight Council e il Consumer Financial Protection Bureau. Il primo organo si è occupato, finora, di individuare i soggetti finanziari too big to fail, ovvero gli istituti finanziari il cui collasso produrrebbe una crisi sistemica. Vincolati a regole più stringenti sul fronte degli investimenti o dei prestiti, agli istituti in questione vengono fornite, tuttavia, maggiori garanzie di salvataggio in caso di crisi. Il secondo organo federale, invece, ha agito nelle vesti di un’agenzia di tutela del risparmio, attraverso una financial governance del sistema creditizio privato (mutui e carte di credito), bloccando la strada, in particolare, ai “prestiti predatori” (predatory lending). Fiore all’occhiello ma obiettivo mai davvero realizzato della legge Dodd-Frank è il cosiddetto Volcker Rule, la norma che avrebbe dovuto impedire alle banche di usare i fondi di risparmio in operazioni di speculazione finanziaria. E sotto sorveglianza, secondo le intenzioni dell’amministrazione Obama, era finito anche l’operato delle agenzie di rating, nonché il mercato dei derivati, trattati alla stregua di sorvegliati speciali. Sulla complessità e sulla lentezza derivanti dall’inevitabile burocratizzazione del settore, tradottasi in maggiori costi per i servizi finanziari, si erano concentrate, fin da subito, le critiche di molti repubblicani. Donald Trump, almeno fin dal maggio del 2016, non ha mai esitato a definire la legge Dodd-Frank un «disastro» e, nel migliore dei casi, un fattore di disincentivo economico. Le 149 pagine del rapporto redatto da Steven Mnuchin, segretario al Tesoro, su ordine di Trump, sono dunque solo l’ultimo atto di accusa nei confronti del Dodd-Frank Act. Le pagine di Mnuchin sono meno radicali se confrontate con il provvedimento passato alla Camera. Si prenda, come esempio, il Consumer Financial Protection Bureau: Mnuchin ne esclude la soppressione, anche se propone una commissione politica bipartisan a sorveglianza dell’agenzia, e la possibilità, da parte del Presidente americano, di sostituirne le figure apicali. Il testo prevede altri suggerimenti come la riduzione della soglia degli stress-test o la necessità di minori garanzie per la concessione di prestiti bancari. In sostanza, il testo di Mnuchin, pur conservando una qualche ossatura del Dodd-Frank Act è più teso svuotarne la capacità operativa e normativa, che a eliminarlo del tutto. Una sorta di compromesso, di cui il testo di Mnuchin traccia le linee guida, soprattutto in vista del prossimo scontro in Senato. Da questo scontro è probabile che uscirà il futuro assetto normativo del sistema finanziario americano.

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Il Bitcoin vale più dell'oro, e i rischi?

Scritto il 07.06.2017

Nella seduta di ieri, 2 giugno, il valore di un Bitcoin ha raggiunto la quotazione finanziaria di 2900 dollari, attestandosi a fine giornata sulla cifra di 2800 dollari. Un nuovo record, dopo quello della settimana scorsa (2800 dollari), in linea con la vertiginosa, quasi irresistibile, crescita della cripto-moneta in atto da ormai quasi dieci mesi e che si prepara a superare i 3000 dollari. Sembra passato un secolo da quando, nel 2009, Satoshi Nakamoto – lo pseudonimo dell’inventore del Bitcoin – lanciava sul mercato i primi “Bitcoin-wallet”, portafogli riempiti di denaro non più contante ma elettronico, scambiabile attraverso forme di registri on-line peer to peer. All’epoca, un Bitcoin valeva all’incirca 10 centesimi. Nel 2010 la valuta diede segnali di solidità: raggiunse stabilmente un valore di circa 10 dollari e, quando nel 2011 sfiorò i 40 dollari, sembrò un successo. Era solo l’inizio. Il terremoto speculativo arrivò nel 2013 quando la valuta nel giro di qualche settimana moltiplicò il proprio valore, giungendo a una quotazione di 300 dollari. Eppure, lo storico risultato non avrebbe avuto nulla a che vedere con la rincorsa dei mesi successivi: ridimensionata al valore di 100 dollari nel giro di qualche settimana, dopo la battuta d’arresto, la cripto-moneta cominciò un’impennata straordinaria che, verso la fine del 2013, fece raggiungere all’e-money il valore di 1200 dollari. Un fuoco di paglia: il 2014, annus horribilis della e-money, riconsegnò il Bitcoin al valore di qualche centinaio di dollari. Poi, dal novembre dello scorso anno, la nuova rincorsa. Il Bitcoin oggi vale oro. Anzi: vale più dell’oro. Un’oncia d’oro è quotata poco più di 1200 dollari, ed è una soglia che il Bitcoin ha ampiamente superato. Con ciò, è chiaro che, su un punto, la moneta elettronica non può ancora competere con il metallo prezioso: la stabilità. Eppure, «Payment is accepted in Bitcoin only»: è questa infatti la modalità di riscatto pretesa dagli hacker del rasomware Wannacry. E con una certa sorpresa i mercati hanno letto, pare, solo l’aspetto positivo della vicenda: se il riscatto è stato chiesto sotto forma di Bitcoin, allora vale la pena scommettere su un suo futuro. Dietro alla rincorsa del Bitcoin degli ultimi mesi ci sono almeno due ragioni piuttosto inquietanti, legate proprio all’illegalità: la prima, il ritiro dalla circolazione, in India, delle banconote da 500 e 1000 rupie, molte delle quali, legate ad affari poco trasparenti, sono state “ripulite” proprio con una conversione in Bitcoin; la seconda, la limitazione del Governo cinese nell’«esterovestizione dei patrimoni dei nuovi ricchi» (Luca Pagni), che ha spinto ad aggirare i recenti limiti imposti dal governo cinese attraverso i Bitcoin. Se bollette, sushi e componenti di elettronica, in Giappone sono già acquistabili attraverso Bitcoin – resi moneta ufficiale da Tokyo – in Europa e negli Stati Uniti, la strada della compravendita mediante Bitcoin sembra in salita: la Sec ha respinto poche settimane fa la proposta dei fratelli Winklevoss di un Etf, un fondo d’investimento che renderebbe il Bitcoin acquistabile e vendibile facilmente, proprio come si trattasse di titoli azionari. Dal punto finanziario è impossibile negarne il successo, o meglio, la fiducia espressa su di loro dai mercati, ma il numero di transazioni per acquistare beni e servizi attraverso la cripto-moneta è ancora irrisorio, e il maggior guadagno si concentra ancora nella speculazione; in fondo, viene da dire, si tratta di una moneta dal difficile reperimento, volatile, legata nell’immaginario ancora al mondo dell’illegalità: si ricordi il portale Silk Road, dove il traffico di armi e droga era reso possibile proprio dai Bitcoin. In Italia sono circa un centinaio i negozi che hanno scelto come modalità di pagamento i Bitcoin – valuta che, ricordiamo, non è stata ancora ufficializzata – ma si tratta di casi isolati, di una scommessa sul futuro. Regolamentarli sarebbe un passo importante per ridimensionarne il ruolo speculativo, agganciandoli magari a obblighi di convertibilità e rendendoli più reperibili, come prima fase magari, attraverso la soluzione degli Etf.

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Una Bad Bank Nazionale, per le "sofferenze bancarie"

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  • Banche e prodotti bancari
Scritto il 29.05.2017

Commissione Europea e Ecofin sono al lavoro, in questi giorni, per stendere un rapporto sui crediti bancari inesigibili all’interno dell’Eurozona. Quasi certamente, la soluzione principe che, contestualmente ad altre, verrà proposta per liquidare le cosiddette “sofferenze bancarie” sarà la creazione di bad bank nazionali, corredata con le linee guida per la loro realizzazione e gestione. Non si tratta di una novità: dall’inizio della crisi, la soluzione del bad banking viene riproposta ciclicamente. Ma, proprio a partire dalla pubblicazione del documento in questione, è verosimile che le istituzioni europee tornino a esercitare il loro pressing sui Paesi più interessati dai crediti deteriorati. L’Italia, con i suoi quasi 200 miliardi di titoli tossici – i famigerati Npl (Non Perforimg Lons) – è tra quelli. All’inizio di quest’anno, il presidente dell’autorità bancaria europea (Eba) Andrea Enria aveva lanciato una proposta ben più ambiziosa: una bad bank europea per smaltire la massa di sofferenze all’interno del sistema finanziario europeo, stimata attorno ai 1000 miliardi di euro. Anche in questo caso, non si tratta di una proposta nuova. Tuttavia, se lo sforzo di costituire una bad bank comunitaria può sembrare troppo ambizioso, o addirittura utopico, l’idea della creazione di una bad bank nazionale è la soluzione che emerge anche da un paper dell’influente think tank di Bruxelles Bruegel, presieduto dall’ex premieri Mario Monti, da titolo: How not to create zombie banks: lessons for Italy from Japan, e che potrebbe essere letto come una parziale anticipazione del documento in fase di elaborazione da parte di Ecofin. Parlare di una bad bank, in buona sostanza, significa parlare di un istituto di credito preposto a ripulire le banche dai crediti deteriorati. Insomma: individuati gli asset tossici, quest’ultima penserebbe al lavoro “sporco”. Detto ciò, la questione è capire quale soggetto abbia i requisiti per mettere in atto un sistema di bad banking. La performance deludente del fondo di investimento Atlante, perlomeno in Italia, ha indicato come improbabile uno scenario dove lo smaltimento degli Npl possa essere a carico del solo settore privato. Su questo punto, tra l’altro, poco più di un mese fa, a muovere una critica ad Atlante per il mancato acquisto massiccio degli Npl è stato il presidente di Intesa San Paolo Gian Maria Gros-Pietro. Per quanto pubbliche, come è inevitabile che siano, è chiaro che la garanzie offerte dallo Stato per cartolalizzare le sofferenze bancarie non potranno essere gratuite. Il prezzo verrà stabilito secondo un criterio di mercato, come concordato all’inizio del 2016, in Commissione Europea, dal Minstro Pier Carlo Padoan. Funzionerà così: la gestione dei titoli più rischiosi sarà remunerata di più, come accade, in generale, per quei titoli che offrono meno garanzie. Insomma: uno schema che ricalca il trasferimento di rischio che avviene attraverso il CDS (Credit Default Swap). Il Fondo de Reestructuración Ordenada Bancaria  è stato finora l’esperimento di bad banking più rilevante intrapreso in Europa – anche se si potrebbero citare casi analoghi per Irlanda e Portogallo. Ed è proprio grazie al Banco Malo, come è chiamato in Spagna, se Bankia – la più importante cassa di risparmio spagnola – è tornata in vita. L’operazione è costata 41 miliardi, anticipati dal FESF (il fondo di stabilità finanziaria europeo), cui si sommano i 20 elargiti dal governo spagnolo. Con la pubblicazione del rapporto di Ecofin e della Commissione Europea, dunque, è probabile che si torni a parlare con maggior insistenza, e più nel dettaglia, della creazione di un Banco Malo nostrano per smaltire le enormi sofferenze finanziarie delle nostre banche. E, proprio sulla base di linee guida più chiare e definite, i sostenitori del bad banking potrebbero avere qualche ragione in più da far valere.

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La Brexit-strategy di Goldman Sachs

Scritto il 21.05.2017

Londra è a rischio stallo e, se non ci saranno le condizioni per superarlo, Goldman Sachs è pronta a spostare altrove una buona parte degli oltre 6mila dipendenti operanti nella City: lo ha dichiarato Lloyd Blankfein, CEO della banca d’affari americana, in un’intervista alla BBC. Per ora si tratta solo di un’ipotesi, ma l’obiettivo dell’avvertimento è chiaro: evitare un’hard Brexit nel breve periodo. Era difficile pensare, d’altronde, che Goldman Sachs non avesse approntato più che una exit-strategy una vera e propria Brexit-strategy, una soluzione d’emergenza per fronteggiare un’escalation legata alla vittoria dei Leavers e delle loro istanze più radicali. «Non abbiamo per ora dei grandi piani, stiamo valutando» e, in riferimento alla soluzione più pessimista, cioè quella di un trasferimento tout court, Blankfein ha dichiarato: «stiamo cercando di evitarla». La contropartita che Goldman Sachs chiede al Governo britannico, onde evitare il peggio, è un differimento degli effetti della Brexit, cioè una franchigia dalle conseguenze, per lo meno sul piano finanziario, mediante forme di permanenza all’interno del Mercato Unico Europeo; le stesse forme di partecipazione, per dire, messe in atto da Paesi come la Svizzera e la Norvegia, che dell’Unione Europea, infatti, non sono membri. Eppure, l’hard Brexit, più per ragioni di leadership che per interessi nazionali, sembra essere la strada imboccata con tenacia da Theresa May. Lo scontro ingaggiato con le istituzione europee ne sta rafforzando l’immagine presso i Leavers, ma così facendo il prezzo della trattativa rischia di alzarsi: una piena autonomia in materia di circolazione di persone e merci potrebbe costare alla City la sua posizione di primato finanziario in Europa; per ora, Londra conta oltre 300mila persone impiegate nel settore finanziario e un traffico di 850 miliardi di euro legati al solo clearing di derivati ogni giorno. L’intervista a Blankfein, d’altro canto, è l’ultimo anello di una catena che lega Morgan Stanley a Deutsche Bank, Ubs a Barclays, cioè tutte quelle banche che hanno annunciato significativi spostamenti di personale dalla City. Il presidente di Morgan Stanley, Colm Kelleher, ad esempio, ha dichiarato che sarà giocoforza ridimensionare la presenza di personale a Londra, in favore di una maggiore presenza nei centri finanziari europei, spostando nel continente qualche centinaio di risorse. Il motivo? Con l’uscita dal Mercato Unico Europeo, l’Inghilterra non sarà più un pied a terre finanziario così conveniente, pur conservando, dalla prospettiva americana, il vantaggio linguistico e culturale. Una delle ragioni del possibile esodo, l’ha spiegata molto bene Valdis Dombrovskis, vice-presidente della Commissione europea: «Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione, un volume sostanzioso delle transazioni denominate in euro non sarà più soggetto né a un iter di compensazione – gli 850 miliardi di clearing, appunto – nella Ue, né alla legislazione comunitaria, né all’architettura di vigilanza europea». Dunque, per tutelare le controparti, qualora si stabilissero forme di discontinuità legislativa tra Gran Bretagna ed Europa, servirebbe spostare i maggiori centri finanziari rivolti al Mercato Unico all’interno della zona di vigilanza europea. In un rapporto di Ernst & Young, già divulgato dal Sole 24 Ore, il personale che nei prossimi sette anni potrebbe perdere il posto di lavoro per questa ragione ammonta a 83mila unità. Se la piega degli avvenimenti dovesse confermare la vittoria dell’hard Brexit, la domanda giusta da porsi è: chi potrà avvantaggiarsi di più? La vicinanza all’Eurotower rende Francoforte un inevitabile punto di approdo. Se qualcuno ha parlato di Milano, e di una grande occasione per la città di Piazza Affari, ciò è vero solo in parte: le banche americane avrebbero messo gli occhi su un altro centro finanziario, vantaggioso dal punto di vista linguistico e culturale – per alcuni preferibile, anche per via della sua cucina (sic!) – indicano Dublino come alternativa credibile.

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