Federico Pani

Federico Pani

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Contratti sugli investimenti, ecco il segreto dei prodotti derivati

Scritto il 04.06.2018

Nomen omen, dicevano i latini e, nel caso dei derivati, è difficile dare loro torto. I derivati sono strumenti finanziari che determinano il loro valore sulla base di asset (o gruppi di asset) detti “sottostanti”. In altri termini, si tratta di prodotti regolati sulla base delle variazioni di valore di altri investimenti. I derivati possono assumere molte funzioni, tra le quali c’è anche quella di assicurazione contro le perdite. Di fatto, parliamo di contratti, che, come oggetto, hanno una vasta gamma di prodotti finanziari, di cui fanno parte azioni, obbligazioni, commodity, valute, tassi e indici di mercato. Mettere a fuoco le tipologie più comuni di prodotti derivati è il modo migliore per capirne il funzionamento. Cominciamo con i futures, che insieme ai forward sono senz’altro i prodotti derivati più diffusi. I futures sono accordi contrattualizzati tra due parti, le quali si impegnano, da una parte a vendere, dall’altra a comprare un prodotto a un prezzo stabilito, e a fissare la scadenza della compravendita. Trattandosi di beni che sono spesso quotati sul mercato finanziario, o soggetti a variazioni di prezzo, se ci si aspetta che gli asset che si detengono siano destinati a deprezzarsi, è chiaro che un contratto che permetta di venderli all’attuale prezzo di mercato anche tra diversi mesi – quando si presume, appunto, varranno meno – non può che essere ritenuto ex ante come vantaggioso. Chi invece si aspetta un apprezzamento dei beni della controparte dello scambio avrà altrettante buone ma opposte ragioni per stringere l’accordo. I forward, invece, sono contratti a termine che prevedono la vendita di un credito sottostante – inteso anche qui in senso lato: attività finanziarie, merci e non solo – in una data stabilita, a un prezzo altrettanto e preventivamente stabilito. La differenza con i futures? Nessuna: senonché i forward non vengono sottoscritti nel mercato regolamentato, bensì in quello mobiliare non soggetto a specifiche regolamentazioni, ovvero nel cosiddetto mercato OTC (Over the Counter). Foward e futures, così come li presenta tra gli altri anche la Consob, nella sua utile guida on-line sui prodotti derivati, possono venire rubricati, in fondo, come semplici “contratti a termine”. Anche i credit default swap (CDS) sono un prodotto derivato. In buona sostanza, un CDS è una polizza assicurativa – stipulata tipicamente su obbligazioni societarie – che prevede il pagamento di rate semestrali fino a una scadenza. Il meccanismo ricalca da vicino il funzionamento di un’assicurazione: in virtù di una garanzia su un asset sottostante, da parte del venditore dei CDS, l’acquirente paga un premio stabilito. La garanzia consiste nella promessa, da parte del venditore, di versare una certa somma, qualora si verifichi un evento negativo relativo a quell’asset. Fu grazie alla stipula di questi contratti che Michael Burry, puntando tutto sul fallimento delle obbligazioni legate ai mutui subprime, fece guadagnare al suo fondo di investimenti, nel giro di un anno, 750 milioni di dollari. Era il 2007 e a raccontarlo meglio di altri è stato certamente Michael Lewis, nel suo libro “La grande scommessa”. I CDS fanno parte, in realtà, della più larga famiglia degli swap, che in inglese significa letteralmente “scambio”. Generalizzando, si potrebbe dire che si tratta di accordi su scambi di flussi monetari scadenzati e ancorati, come tutte le forme di derivati, a crediti sottostanti. Tra i più diffusi, ci sono gli interest rate swap (IRS), contratti tra due investitori che, per così dire, scambiano tassi d’interesse. In questo caso, il credito sottostante è davvero sui generis: entra in scena, infatti, un capitale nozionale, ovvero un capitale del tutto fittizio, sul quale però vengono calcolati dei veri e propri rendimenti. Nel cosiddetto vanilla swap, uno dei tassi oggetto dello scambio è tipicamente fisso, mentre quello variabile può ancorarsi a un indice di rendimento, come, per fare un esempio molto comune, il LIBOR o l’EURIBOR. Di solito, sono gli istituti di credito a essere abilitati e a fornire, di fatto, questo genere di contratto che, in ultima analisi, non è molto dissimile da un semplice assicurazione. Che un investitore possa preferire a un tasso variabile un tasso fisso – il che equivale a dire: a entrate fluttuanti, un rendimento costante – è un’idea abbastanza intuitiva e in linea con un diffuso atteggiamento di avversione al rischio. Ma poniamo il caso di un’azienda che emetta obbligazioni a tasso fisso: non sempre il fatturato sarà costante e l’azienda potrebbe rischiare di entrare in sofferenza, proprio per dover onorare i tassi d’interesse promessi dalle obbligazioni. In tal caso, l’azienda può ricorrere a uno strumento derivato e sottoscrivere un contratto con un istituto di credito, il quale si impegna a versare ai detentori dei Bond un rendimento fisso; quello versato dall’azienda alla banca come contropartita, invece, può essere ancorato ai flussi di cassa (variabili) o a un indice di riferimento stabilito. In questo caso, il tipo di swap prende il nome di asset swap, in quanto il contratto non è ancorato a una semplice somma, come nel caso dell’IRS, ma a un prodotto finanziario specifico. Sarebbe difficile stilare un elenco esauriente di tutte le forme assunte dai contratti swap, data la vasta gamma di accordi possibili. Oltre ai prodotti derivati finora analizzati, esistono tuttavia ulteriori forme ricorrenti, che completano quantomeno un quadro d’insieme dei prodotti derivati. Le commodity swap, per esempio, sono accordi che scambiano la variabilità del prezzo di una materia prima – per fare un esempio non casuale, in quanto è il più classico, il petrolio – con un prezzo stabilito in precedenza. Nei currency swap, invece, lo scambio avviene tra un capitale e gli interessi relativi espressi in una moneta, contro un altro capitale, i cui interessi sono espressi naturalmente in un’altra divisa. Lo scambio di capitale può concludersi nella restituzione delle somme di partenza, cosicché i contraenti possano passare semplicemente all’incasso dell’interesse maturato. Una caratteristica peculiare di quest’ultimo swap consiste nel fatto che i tassi d’interesse scambiati sono solitamente variabili. Tra le numerose funzioni dei prodotti derivati, ce n’è una che può essere ascritta, fra le altre, alla categoria di benefit aziendale o, ancora, come parte della corresponsione del salario ai propri dipendenti. Stiamo parlando delle stock option, ovvero contratti che attribuiscono il diritto ma non l’obbligo di acquistare (opzione call) o vendere (opzione put) le azioni di un’azienda a un determinato prezzo che, si capisce, sarà di convenienza. Anche in questo caso, la vendita è vincolata secondo criteri scadenzali. A questo punto, solo un semplice distinguo: se l’acquisto o la vendita sono permessi in ogni momento da qui al termine prefissato, si parla di stock option americane; se la compravendita deve avvenire in un momento puntuale, si parla di stock option europee. Vale la pena chiudere con uno strumento derivato, molto affine alle stock option, e cioè il covered warrant. Anche in questo caso, il prezzo di vendita o di acquisto viene congelato fino a una scadenza prefissata, ma non si tratta di contratti su crediti sottostanti, bensì di veri e propri titoli. I covered warrant sono noti, insieme alle opzioni, perché in certi casi danno la possibilità di mettere in atto il cosiddetto effetto leva in riferimento ai capitali sottostanti, un effetto che può garantire notevoli guadagni, ma tradursi anche – se si sbaglia il trend del mercato – in perdite. Generalmente, ciò è indice di un’elevata rischiosità dell’investimento. E così, sebbene si tratti di prodotti derivati diffusi anche tra i risparmiatori, i prodotti vengono usati, solo se inseriti all’interno in una strategia d’investimento molto precisa.

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Investire in Titoli di Stato. Sale lo spread?

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  • Titoli di Stato, Spread e Tassi di i
Scritto il 25.05.2018

Volendo essere diligenti, se stampigliassimo sulla faccia di una medaglia il debito pubblico di un paese, sull’altra dovremmo apporre il profilo dei titoli di Stato. Per quanto elevato sia l’ammontare del gettito fiscale, è fisiologico, infatti, da parte di uno Stato ricorrere a forme alternative di finanziamento, che non siano le tasse. E così, come farebbe anche un privato in questo caso, si ricorre a un prestito. Il prestito si traduce nell’acquisto di debito da parte di qualcuno, sotto forma di titoli, che nient’altro sono se non forme obbligazionarie. Fin qui, nessuna meraviglia, anche perché il meccanismo è comune a molti soggetti che sul mercato sono abilitati a emettere obbligazioni. Tra di essi, ci sono naturalmente le aziende, ma anche gli enti pubblici territoriali e, nel caso di specie, il Ministero delle Finanze. Prestare del denaro significa naturalmente, prima o poi, doverlo restituire – in gergo: “rimborsarlo” – e pagare degli interessi. Capire quando restituirlo e sulla base di quale criterio calcolare gli interessi è la variabile discriminate per capire come si differenziano tra loro i titoli di Stato. Per esempio: i BOT (Buoni Ordinari del Tesoro) hanno una durata che va dai 3 ai 12 mesi e un margine di interesse piuttosto basso; i BTP (i Buoni del Tesoro Poliennali), ciascuno dei quali ha un determinato tasso che è fisso, sono sottoscrivibili dai 3 ai 50 anni; e secondo un principio piuttosto intuitivo, il tasso di rendimento è crescente, sulla base della durata della sottoscrizione. La curva del rendimento delle obbligazioni è legata dunque alla tipologia dei titoli e, in particolare, al loro grado di rischio. Ma di quale rischio stiamo parlando? Semplice: la possibilità che l’emittente non sia più in grado di onorare il suo prestito. In altre parole, che lo Stato vada in default, fallisca. Un’ipotesi remota in un certo senso, ma da tenere comunque in considerazione: per quanto fuori dal comune, casi come l’Argentina, l’Islanda o la Grecia ci ricordano che è possibile. A mettere in guardia gli investitori esiste comunque un sistema di rating – approvato a suo tempo nel consesso di Basilea – che associa a ogni Stato un corrispondente rischio di insolvenza. Il rating BBB- è considerato uno spartiacque: al di sotto di quel punto, si entra nell’ambito della speculazione e non più dell’investimento. Ma torniamo alla tassonomia dei titoli di Stato. La gamma dei titoli acquistabili è piuttosto varia e una prima forma di discrimine è il modo in cui si ottiene il rendimento. Esistono titoli che garantiscono interessi corrisposti in modo regolare, mediante le celebri “cedole”, chiamate anche coupon, un tempo cartacee, e ora telematiche. Come esempio, valgano i classici BTP. Altri titoli, invece, promettono valore solo nel momento in cui vengono rimborsati, in virtù dello “scarto di emissione”, cioè la differenza tra il valore nominale e quello di emissione. Come esempio, si possono citare i CTZ, il cui acronimo, infatti, sta per Certificati del Tesoro Zero Coupon. Un ulteriore elemento di diversità consiste nel tasso d’interesse, che può essere fisso o variabile. A differenza di BOT e BTP, per i CCT (Certificati di Credito del Tesoro) vengono staccate cedole semestrali con rendimento variabile. Nel caso dei CCTeu, il tasso di riferimento è l’Euribor, ma esistono prodotti che vengono indicizzati sulla base dell’inflazione italiana (Btp Italia) o sulla base di quella europea (BTP€i). Per quanto non esistano particolari limitazioni per i privati, i titoli di Stato sono un prodotto acquistabile solo mediante un istituto di credito o un intermediario finanziario abilitato. Se si decide di farlo durante le aste, cioè al momento dell’emissione, si ha il vantaggio di non pagare commissioni, eccezion fatta per i BOT, le cui commissioni massime hanno comunque un tetto fissato per decreto. In realtà, poi, l’acquisto delle obbligazioni statali, virtualmente, avviene ancor prima: i risparmiatori devono prenotare infatti l’ammontare desiderato, con un giorno di anticipo e quest’ultimo non deve essere al di sotto di una certa soglia, che è di mille euro. Il Ministero del Tesoro pubblica comunque regolarmente il calendario delle aste sul proprio portale web. Sul mercato secondario è possibile, invece, acquistare i titoli di Stato già in circolazione. In tal caso, le banche e gli altri intermediari finanziari sono liberi di applicare delle commissioni, pur negoziabili. L’esistenza di un vasto mercato secondario garantisce ai titoli di Stato la liquidità necessaria per lasciare tranquilli molti acquirenti: i risparmiatori hanno ottime possibilità di vendere i titoli ai prezzi di mercato, e soprattutto di farlo in anticipo sulla scadenza. Il MOT (Mercato telematico delle Obbligazioni e dei Titoli di Stato) è il mercato secondario gestito direttamente dalla Borsa Italiana, che offre ai cittadini – pur senza poter prescindere da un intermediario finanziario – la chance di comprare o vendere titoli di Stato e altre obbligazioni, purché l’importo minimo, anche in quel caso, sia pari a mille euro. Vale la pena, arrivati a questo punto, di concedersi una digressione conclusiva sul significato del termine spread. Difficile non essere incappati, in qualche modo, nella definizione, peraltro giusta, che viene data: si tratta del differenziale del rendimento tra i titoli di stato tedeschi decennali BUND (Bundesanleihen, cioè «obbligazioni statali» o, meglio, «federali») e gli omologhi italiani BTP. Per prima cosa, lo spread è una media dei risultati delle contrattazioni che avvengono sul mercato secondario e viene calcolato confrontando i rendimenti dei titoli di Stato italiani con quelli tedeschi, perché i mercati (non senza ragioni) considerano solida l’economia della Germania e gli interessi sul debito sono storicamente molto bassi e stabili. Detto ciò, il punto è che il problema non è tanto lo spread, quanto piuttosto l’alto tasso di rendimento che il mercato richiede, in media, per la sottoscrizione delle obbligazioni statali italiane. E c’è solo un modo per interpretare questo fatto, cioè come un segno di sfiducia nei confronti dell’Italia e della sua economia. Le ripercussioni di tassi così alti riguardano, peraltro, la nostra vita di tutti i giorni: se uno Stato fatica a rifinanziarsi e si avvicina a un livello di rischio di default, accade che il tasso di rendimento sulle obbligazioni di banche e imprese si alza immediatamente, perché è evidente che l’eventuale fallimento della nazione di appartenenza mette a rischio anche loro. Un meccanismo che puntualmente si propaga anche sui mutui. Che i titoli di Stato siano un investimento sicuro, seppur con rendimenti molto contenuti, visto da questa prospettiva, dovrebbe perciò essere considerato un buon segnale da parte di molti risparmiatori, piuttosto che il contrario.

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Cos'è la tecnologia Blockchain e come si lega ai bitcoin

Scritto il 16.05.2018

Se state rimpiangendo di non aver investito i vostri risparmi in bitcoin, vi sarete anche interrogati sull’opportunità di investire o meno su una tecnologia di cui, in fondo, si continuano a ignorare molti aspetti. Perché, diciamoci la verità: chi ha capito davvero che cosa sono i bitcoin? Da una parte, i toni sulla cripto-valuta suonano encomiastici e c’è chi vede i bitcoin come uno dei massimi risultati della capacità libertaria e un po’ anarchica della rete, arrivata al punto di creare dal nulla una nuova moneta; dall’altra, qualcuno sente l’odore di truffa o, peggio ancora, di bolla speculativa, di «veleno per topi», come ha detto senza mezzi termini Warren Buffet. Sulla vita dei bitcoin, perciò, in un certo senso, è lecito scommettere. Ma che dire, invece, della tecnologia sottostante i bitcoin, ovvero la blockchain, cioè il relativo protocollo informatico, messo a frutto da Satoshi Nakamoto, il misterioso creatore della valuta digitale? La blockchain è, letteralmente, una «catena di blocchi» composta da pacchetti di dati. I blocchi legati tra loro costituiscono, di fatto, l’archivio di una sequenza di transazioni. Le transazioni, per essere così ordinate, devono essere allo stesso tempo già state validate e correlate da un marcatore temporale (timestamp), cioè: devono essere munite di data e ora. Per funzionare, ogni blocco esistente ha la prerogativa informatica di prevedere un hash value, cioè una combinazione alfanumerica, che è l’esito di una funzione algoritmica, il cui risultato dà la possibilità a un ulteriore blocco-dati di aggiungersi. La funzione in questione non deve essere invertibile, cioè deve dare un risultato univoco. Solo così, infatti, la stringa di dati già presente può riconoscere la serie entrante come compatibile e permetterle di agganciarsi. Il meccanismo è complesso e vale la pena di spiegarlo con parole diverse. Poniamo di voler far parte di una comunità di server tra loro connessi e di voler procedere a uno scambio di dati. Bene, decidiamo di non scambiare semplicemente dati ma anche soldi e proviamo a porre regole più stringenti, a fare cioè in modo che ogni transazione, da una parte, sia certificata e che, dall’altra, preveda un guadagno e una cessione di valore. Primo punto: la transazione dovrà presentarsi come proveniente da uno e diretta verso un altro dei nodi della rete; inoltre, dovrà essere realizzata di concerto tra le parti (il sistema blockchain usa a garanzia specifiche chiavi d’accesso). Secondo punto: l’unicità della transazione dovrà essere validata da un codice, risultato di complessi ma predefiniti calcoli informatici, che imprimano al trasferimento una certificazione univoca. Una volta codificato e validato, il codice della transazione sarà unico, munito di una precisa data e ora, e verrà aggiunto al registro on-line. La certificazione dell’avvenimento fornisce alla tecnologia blockchain garanzie di sicurezza informatiche senza precedenti. Se si volesse provare a modificare la transazione e appropriarsi di una stringa di dati, cioè di un bitcoin, ecco cosa bisognerebbe fare: recuperare la stringa alfanumerica e modificare i dati provenienti dai singoli server. In altre parole, chiedere l’autorizzazione a ogni nodo, cioè a ogni server, di modificare i dati inviati. Qualunque vantaggio sperato sarebbe annullato da un impiego di forze del tutto sproporzionato. Violare il registro presente su un server è un conto: fare lo stesso su un registro composto da una rete di centinaia di migliaia di server, un altro. La blockchain viene chiamata sul web, infatti, anche “ledger”, nel senso di “libro mastro”. L’appellativo è tutt’altro che erroneo, dato che si tratta proprio di un registro presente in rete e aperto al pubblico. Con l’unica differenza di essere distribuito su centinaia di migliaia di server. Indipendentemente da qualsiasi forma di utilizzo monetario, è chiaro che la tecnologia, di per sé, presenti un valore d’innovazione dirompente. La possibilità di lasciare una traccia digitale, univoca e immodificabile di una transazione, infatti, potrebbe rendere obsoleta ogni forma di registro notarile, catastale o comunque tradizionale. Perfino le transazioni borsistiche e azionarie potrebbero essere effettuate secondo questo criterio, rendendo di colpo inutili o quasi gli istituti di intermediazione. Ma torniamo solo un momento ai bitcoin. Un tempo, e parliamo di 7-8 anni fa, validare una transazione era un’operazione relativamente semplice e si poteva farlo dal proprio computer. Data la complessità delle attuali catene di dati, ora invece è necessario servirsi di server appositi, con potenze di calcolo computazionali 10mila volte superiori alla norma. Viene spontaneo chiedersi: cosa spinge alcuni operatori ad armarsi di server così specializzati? Semplice: un premio in bitcoin. Ogni validazione genera cripto-moneta e permette al ciclo di continuare. «Senza incentivo economico la blockchain non può funzionare, tant’è che gli esperti parlano più volentieri di distributed ledger technology per definire l’idea generica di un libro mastro, di una fonte dati condivisa, che certifica di fronte a tutti il fatto che alcuni avvenimenti (e dunque alcune transazioni) sono accaduti», ha commentato in un’intervista Ferdinando Ametrano, docente dell’Università Biccocca di Milano ed esperto di fintech. D’altro canto, continuare a produrre bitcoin, semplicemente, è impossibile; il protocollo è programmato, infatti, per dimezzare la propria capacità di produzione ogni quattro anni e lo stesso Ametrano calcola che, nel giro di una decina d’anni, i bitcoin già prodotti saranno ormai il 98% sul totale disponibile. Una cosa bisogna ammettere: Satoshi Nakamoto, come molti hanno notato, è stato in grado di inventare l’entità digitale, finita e immodificabile, che più si avvicina a un bene prezioso e scarso come l’oro. Servendosi di una felice metafora, gli estrattori di bitcoin sono chiamati miners e la valutazione della moneta, non a caso, ha raggiunto e in certi momenti superato quella dell’oro. Ma se la continuità che c’è tra la produzione di bitcoin e la tecnologia che li ha generati è così stretta, chi ci garantisce che, una volta esaurito il filone della cripto-valuta, anche la tecnologia blockchain diventi inservibile? Perché rinunciarvi, a fronte di simili vantaggi, soprattutto relativi alla sicurezza, alla trasparenza e alla pubblicità delle transazioni? Vantaggi per alcuni, si dirà, perché di fronte a tanta retorica che circola in rete, il potenziale di disintermediazione è fortissimo, quasi difficile da immaginare. E gli istituti di mediazione bancaria e creditizia (e non solo loro), che stanno investendo nella ricerca in materia, conoscono bene le potenzialità ma soprattutto i rischi che questa tecnologia potrebbe comportare per loro.

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Private equity, ecco come investire sul capitale di rischio d'impresa

Scritto il 10.05.2018

Che la finanza non abbia nulla a che fare con l’economia reale, lo sviluppo e l’innovazione è, semplicemente, un pregiudizio. La finanza ha, tra i suoi compiti, proprio quello di fornire risorse e diversificare i rischi delle imprese fisicamente presenti sul mercato. I private equity sono un esempio: dall’inglese private, «privato», e equity, «capitale proprio, o patrimonio netto», questi strumenti consistono in un investimento finanziario nel capitale di rischio di aziende non quotate in borsa. Che la borsa sia esclusa (in parte) in questo caso, non deve trarre in inganno: a compiere le operazioni sono investitori specializzati. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto: esistono tre tipi di private equity. Il primo è il noto venture capital, cioè il finanziamento volto al decollo di nuove imprese; in ossequio alla moda del momento, è stato ribattezzato anche start up financing. Visto dall’altra parte, si potrebbe definirlo, pazienza del lettore permettendo, con il ricorso a un altro anglismo: fundraising, cioè una «raccolta fondi». Supportare le fasi di avvio di un’impresa è un’operazione dagli evidenti risvolti sociali (molte di esse, tra l’altro, si occupano di innovazione); ma farlo può garantire anche preziosi dividendi se le start up su cui si ha investito inverano le aspettative. E i modi per riscuoterne i successi non mancano: possedere quote azionarie, sedere in un consiglio di amministrazione delle stesse oppure venderle. Il secondo tipo di private equity è, in qualche modo, simile ed è il capital growth o l’expansion financing. Sostanzialmente, serve per promuovere e stimolare – laddove ci sia il margine per farlo – lo sviluppo o la crescita sul mercato di imprese già avviate. Il terzo tipo di private equity è senz’altro il più complesso da descrivere e si basa su un’operazione detta di leverage buyout. Per motivi di cui si parlerà a breve, si dà il caso che alcuni investitori possano voler rilevare quote di alcune società e queste società siano disposte a cedergliele. Non avere la liquidità per farlo non è un problema: in ottemperanza ad alcune regole fiscali e amministrative, bisogna soltanto che gli investitori costituiscano una società nuova di zecca (detta newco, cioè molto semplicemente, new company) che acquisti le quote della società originaria (target company). La nuova società potrà far aprire a questo punto i rubinetti del finanziamento bancario e, facendosi assimilare, acquistare una quota del capitale della società originaria. Quest’ultima, grazie alla crescita prevista, conseguente magari all’acquisizione, potrà ripagare il credito offerto dalla banca. Le garanzie che la nuova società, di regola, fornisce all’istituto di credito che eroga il prestito sono la chiave per capire di cosa stiamo parlando: gestione più competitiva, apertura al mercato, prospettive di crescita. In poche parole: un management migliore per gli scopi che attendono la società, che si tratti di una privatizzazione, di un riassestamento, un passaggio di proprietà, una quotazione in borsa (Ipo). Insomma: una promessa di crescita. E spesso, infatti, oltreché risorse finanziarie, entrano in gioco anche risorse umane (nuovi manager), know-how e rinnovati modelli di gestione. Se il meccanismo vi è sembrato finora piuttosto complesso, aggiungeteci che l’acquisizione di capitale di rischio d’impresa comporta grandi volumi d’investimento. Perciò, a investire sono solo soggetti specializzati o istituzionali. Ciò non toglie, tuttavia, che anche gli investitori e i risparmiatori possano guardare con interesse e trarre vantaggio dall’investire in private equity, usando specifici strumenti finanziari. Gli investimenti nel settore, in generale, hanno il pregio di poter risultare molto vantaggiosi, soprattutto se l’azienda è da poco sul mercato e, quindi, ha ampio margine di crescita. Il difetto dei private equity, invece, è che si tratta di investimenti che possono essere vincolato anche oltre i 10 anni, cioè il tempo necessario alle imprese per poter raccogliere i frutti del finanziamento. Nulla vieta però che, qualora le valutazioni iniziali sullo sviluppo futuro pecchino di leggerezza, l’impresa possa rivelarsi un cattivo investimento. Nel concreto, esistono sul mercato fondi comuni d’investimento specializzati che fanno sì che le sottoscrizioni degli stessi finiscano proprio in quote di partecipazione del capitale di rischio di imprese e aziende. Nel mercato, data la lunghezza temporale degli investimenti, non è raro che a investire su questi fondi siano le società assicurative o i fondi pensioni, la cui prospettiva è a di medio-lungo raggio. Secondo il Boston Consulting Group esistono nel mondo oltre 2mila fondi di private equity che gestiscono un patrimonio di 744 miliardi di dollari, cresciuti del 25% in un solo anno. Anche in Europa la crescita è costante: 93 sono i miliardi gestiti da fondi analoghi, secondo Invest Europe e Private Equity Monitor, per un totale di 1250 investitori specializzati, che dal 2006 registrano una crescita costante del volume d’affari del 12% annuo. L’Italia si posiziona con un magro 5% sul totale. Inoltre, ben il 28% del capitale investito è, dalle nostre parti, di provenienza estera e gli investitori istituzionali (come i fondi pensione) e le assicurazioni, a differenza dei nostri vicini europei, non si posizionano nei primi posti. In totale, secondo i dati di AIFI (Associazioni Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt) si parlerebbe comunque di una cifra ragguardevole, ovvero di 4,9 miliardi, un record assoluto rispetto agli anni passati. L’asse portante del tessuto economico italiano, le piccole e medie imprese, sembrano ancora un po’ troppo restie verso queste forme di finanziamento. Eppure, bisogna ammettere che il mercato finanziario, ormai, ha collaudato con discreto successo degli strumenti fatti su misura per investire direttamente in aziende e imprese: in primis, i Pir naturalmente, ma anche i private equity e le Spac, per molti un’evoluzione degli equity, finalizzate alla quotazione in borsa delle imprese italiane. Il rischio, però, a questo punto è che anche gli investitori italiani, soprattutto quelli istituzionali, non facciano la loro parte e, una volta passate le ultime diffidenze, lascino il campo aperto agli agguerriti investitori stranieri.

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Quanto conta diversificare i propri investimenti per ridurne il rischio?

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  • Consulenza finanziaria
Scritto il 02.05.2018

Uno dei migliori consigli che si possano dare a chi decida di investire i propri risparmi è diversificare gli investimenti. Il secondo è diversificarli bene. Il suggerimento sembra utile quanto generico. Eppure, è un po’ come raccomandare di usare prudenza al volante: non sostituisce la capacità di sapere guidare, ma può salvare da molti inconvenienti. Per prima cosa: diversificare significa distribuire i propri risparmi su strumenti finanziari o prodotti alternativi, e cioè suddividere le proprie risorse in differenti asset class. La ragione è semplice: assicurarsi contro il rischio che le performance negative di un solo investimento mettano a repentaglio l’interezza dei risparmi. Usando una metafora cara agli economisti, equivale a distribuire le proprie uova in più panieri per evitare che, rotto un paniere, a rompersi siano anche tutte le uova. Facciamo ora, per un momento, un salto indietro nel tempo e torniamo nel 1986. Poniamo di voler investire i nostri risparmi su due promettenti realtà dell’hi-tech, appena quotate in borsa: Microsoft e Apple. Bene, aver investito duemila dollari allora significherebbe, oggi, possederne circa 800mila. Morale: se l’investimento è azzeccato, diversificare non serve a nulla; anzi, rischia di essere controproducente. Vero: ma a patto di sapere in anticipo cosa succederà. Detto in altri termini, sapere quali tra le centinaia di aziende quotate saranno premiate, nel tempo, da un radioso successo. Microsoft vale oggi in borsa 570 volte la sua quotazione iniziale, e ne arrivò a valere quasi 600 nel 1999. Tuttavia, con la crisi delle dot-com, il valore si ridusse a un terzo; e ancor peggio fece, quando l’astro del rivale Steve Jobs cominciò a brillare di nuovo. Già, perché la rinascita di Apple, guidata dal lancio dell’i-phone, arrivò a più di trent’anni dalla fondazione dell’azienda di Cupertino, e a venti dalla quotazione in borsa: solo a partire dal 2007 il titolo cominciò a crescere in modo sostanziale, fino al valore attuale, che è 210 volte superiore a quello registrato al momento dello sbarco sul mercato azionario. Chi avrebbe scommesso sul futuro di Apple nei primi anni 2000? Chi non si sarebbe lasciato spaventare, invece, dai crolli subiti dalle azioni di Microsoft? Investire su singoli asset può dare elevati guadagni, è vero; tuttavia, resta un comportamento quantomeno rischioso e spesso svantaggioso. Ciò vale anche indipendentemente dal tempo: posizioni di breve respiro rischiano infatti di essere in balia della volatilità dei titoli; quelle di lungo o lunghissimo immunizzano dalla volubilità momentanea del mercato, ma rimandano a prospettive di guadagno troppo lontane. A pensarci su, se si potesse investire su un solo titolo alla volta, la borsa sì che assomiglierebbe veramente a una sala scommesse: in palio, vincite e perdite ingenti, con una buona probabilità, alla lunga, di finire sul lastrico. Così non è: e il mercato finanziario dovrebbe proprio avere il compito di costruire investimenti dinamici e duraturi nel tempo, coprendoli da rischi inutili, laddove possibile. Attenzione, però: diversificare non vuol dire investire i propri risparmi casualmente. Il punto è fondamentale: investire in asset class differenti non basta. Per equilibrare davvero i propri strumenti finanziari (un fondo, p. es.) è necessario che anche le loro componenti (le azioni) siano tra loro scarsamente o per nulla correlate, ovvero che al calo dell’una non corrisponda, in qualche modo, anche una perdita di valore dell’altra. Il modello matematico che calcola come massimizzare i rendimenti in funzione del rischio così inteso, cioè come costruire dei portafogli efficienti, fu formulato dal premio Nobel Harry Markowitz. Sotto forma di algoritmo, il modello ha ancor oggi un largo utilizzo proprio perché è in grado di tenere conto della correlazione esistente tra i titoli all’interno di un portafoglio e di lasciare all’investitore solo la preferenza sui diversi gradi di rischio da affrontare. Sulla base di quanto affermato prima, risulta chiaro che non tutte le forme di diversificazione si equivalgono. Anzi, se si considera il mercato finanziario come un sistema di vasi comunicanti, si capisce che, alla lunga, più si cerca di diminuire il rischio, più da un certo momento in poi anche i rendimenti attesi si abbassano, finché diventano talmente bassi da risultare nulli. Morningstar ha individuato in dieci fondi il grado di massima e utile diversificazione possibile, tenuto conto che anche un fondo è di per sé uno strumento di diversificazione. Secondo un criterio di utilità marginale decrescente, investire in ulteriori fondi, infatti, non abbassa più di tanto il rischio, mentre fa lievitare i costi d’investimento e mitiga, fino a ridurre al minino anche le possibilità di guadagno. Sulla base di considerazioni simili, l’analista e politico Harry Browne ha provato a dare una ricetta per costruire un portafoglio di successo: dividere la torta dei propri investimenti in quattro fette così ripartite – azioni, oro, titoli governativi a breve termine e titoli governativi a lungo termine. Semplice, no? L’analista Francesco Caruso, in un’intervista rilasciata al Sole 24 Ore, ha spiegato di aver seguito questa strategia scegliendo l’indice tedesco DAX 30 per le azioni, l’oro, il CTz italiani per i titoli a breve e il Bund tedesco decennale per i governativi a lunga. Risultato: un rendimento medio dell’8,1% tra il 2000 e il 2012, sottolineando però l’esteso lasso temporale necessario per arrivare a dei risultati stabili. Nulla vieta, però, che una crisi sistemica cancelli anche queste o altre precauzioni. Durante la crisi del 2008 gli indici globali Morgan Stanley, l’MSCI World e lo S&P 500, strumenti piuttosto diversificati, persero quasi il 40% del loro valore. Aver investito, per esempio, negli indici azionari delle materie prime per limitare il rischio, in quel caso non sarebbe servito a nulla: anch’essi franarono a partire da quell’orribile 2008, come del resto l’intero mercato mondiale. Aveva quindi ragione Warren Buffet, affermando: «la diversificazione è una forma di protezione contro l’ignoranza; non ha molto senso se sai quello che stai facendo»? Come abbiamo visto, solo in parte. Il rischio dovuto all’incertezza resta una componente ineliminabile, in finanza, di ogni guadagno. In un certo senso, non è nient’altro che il suo prezzo. Certo: diversificare il rischio, in molti ambiti, non serve: aprire più mutui per la prima casa o iscriversi a più università contemporaneamente è anzi un modo per allargare le possibilità di un fallimento. Ma diversificare in modo accurato i propri investimenti, nel mercato azionario, resta il primo miglior consiglio da dare a chi decide di investire i propri risparmi.

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l'intesa tra Russia e Arabia Saudita fa volare i prezzi del greggio

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 24.04.2018

Mentre scriviamo, il prezzo Brent al barile è 73,71 $ e il WTI, 68,04 $. La momentanea frenata della corsa in salita del greggio, avvenuta lo scorso venerdì, è tutta merito di Donald Trump. Con un Tweet che ricordava la «quantità record di petrolio presente ovunque», persino su navi viaggianti «a pieno carico», Trump ha cercato di ammonire il gruppo dei maggiori paesi produttori di petrolio, Opec compreso, che si riunivano in quel momento a Gedda. L’ordine del giorno del consesso: i preparativi della decisiva riunione che si terrà a Vienna il prossimo 22 giugno. A quel punto, stabilita una strategia da parte delle cordate guidate dall’Arabia Saudita (l’Opec) e dalla Russia (i cosiddetti paesi non-Opec), non certo propensi a mettere la marcia indietro sui prezzi del greggio, è chiaro che a Trump un semplice Tweet non basterà più. Appena un anno fa, il prezzo Brent del greggio superava di poco i 50 $ e quello WTI era di poco inferiore ai 50. Nell’ultima settimana, con una crescita di 8 quasi 9 dollari al barile, si è raggiunto un record rimasto insuperato negli ultimi 4 anni. Il minimo storico, con cifre da Golden Age e ruggenti anni ante-shock petrolifero, era stato raggiunto nel 2016 con una media di 29 $ al barile. Una cifra quasi incredibile (come ha detto qualcuno: la cheap oil age), giustificata da un mercato energetico debole, da stimolare e grandi produzioni in eccesso. Più che produzioni, per la verità, scorte: le stesse che la scorsa settimana si sono rivelate in vistoso calo negli Stati Uniti (-1,1 milioni di barili contro i -0,5 milioni previsti) e che hanno innescato, in modo abbastanza pretestuoso, il rialzo repentino. La crescita del prezzo della commodity, da parte sua, risponde abbastanza linearmente alle logiche di domanda e offerta. Nel 2016, l’Opec e gli altri produttori guidati dalla Russia, di fronte al crollo del prezzo del barile e alla diminuzione di produzione da parte del Venezuela e del Niger, messi in crisi dai prezzi così bassi, hanno varato un piano di tagli alle scorte che ha fatto apprezzare il valore del greggio. Dall’altro lato, è continuamente cresciuta la previsione di richiesta di petrolio, trainata dell’economia energivora cinese, ma anche dalla ripresa della produzione USA, passando da un fabbisogno di 92 milioni di barili al giorno nel 2014, a 99 milioni quest’anno. A guidare le trattative sul futuro del prezzo dell’oro nero, sono Alexander Novak e Khaled al-Faleh, ministri dell’energia di Russia e Arabia Saudita. La convergenza di interessi di Mosca e Riyad sui temi energetici, negli ultimi due anni, a dispetto di quelli geopolitici, è stata irresistibile. La Russia, economia esportatrice di materie prime, è da tempo scalfita dai bassi prezzi del greggio (così come il Venezuela e la Nigeria). I sauditi, dal canto loro, pur potendo sopportare con maggiore elasticità i cambiamenti del prezzo, sono pronti a varare un ambiziosissimo piano di riforme e di stato sociale nel loro paese, nonché ad attrezzarsi ulteriormente dal punto di vista militare. Ma per fare entrambe le cose servono risorse, risorse e ancora risorse: facilmente rastrellabili, in quel paese, solo aumentando il prezzo del greggio. Che anche l’aggressiva e destabilizzante politica estera di Trump sia responsabile della crescita dei prezzi del petrolio, è vero: la salita oltre i 60 $ al barile è cominciata proprio con l’attacco missilistico in Siria. Dal canto loro, anche gli USA potrebbero trarre vantaggio da un aumento del valore del greggio: la produzione e la raffinazione di Shale Oil americano è ai suoi vertici, per quanto i costi lo abbiano reso, fino a non molto fa, poco competitivo sul mercato. Una generale salita dei prezzi avvantaggerebbe le vendite. Senonché, esiste un risvolto della medaglia molto delicato che coinvolge l’industria dei trasporti, e buona parte dell’elettorato di Trump: il costo della benzina e dei carburanti. Non dimentichiamo che, negli Stati Uniti, milioni di persone macinano ogni giorno decine di chilometri in auto per raggiungere i loro posti di lavoro. Fatto sta che l’Arabia Saudita si è detta favorevole ad alzare l’asticella e, in prospettiva, a portare il prezzo del petrolio a oltre 100 dollari al barile. Dietro questo traguardo esiste un obiettivo non troppo nascosto: risanare il bilancio di Saudi Aramco, in vista del collocamento (Ipo) in borsa del 5% della società. Una quotazione sul mercato regolamentato vertiginosa, che valuta il colosso petrolifero nazionale oltre i 100 miliardi di dollari. Sull’andata in porto dell’operazione, Riyad conta molto. Ma conta forse ancora di più su un ulteriore, ambiziosissimo progetto: un cartello capace di unificare i paesi Opec e non: una “Banca mondiale del petrolio” (ha scritto qualcuno) per poter controllare e rendere stabili i prezzi. L’idea di un grande cartello capace di controllare le oscillazioni del greggio non dispiace ai fondi d’investimento e nemmeno agli investitori istituzionali che, non a caso, hanno privilegiato i futures e gli strumenti derivati su posizioni lunghe legate al greggio. Inoltre, l’idea di un mercato indicizzato su valori stabiliti e regolati da una governance internazionale piace sia agli investitori, che alle grandi compagnie energetiche quotate, le quali potrebbero sfruttare sistemi di assicurazione finanziari ancora più efficaci sull’eventuali oscillazioni di mercato. Infine, ancora la Cina: che è pronta a lanciare sul mercato dei futures i petro-yuan, cioè i primi strumenti derivati sul petrolio nominati in yuan e scambiati sullo Shanghai Futures Exchange in Cina. Con la prospettiva, prima o poi, di poter incidere direttamente sul valore della materia prima.

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Tassi da record per spingere il mercato dei mutui

Scritto il 18.04.2018

Pagare sempre meno per sottoscrivere finanziamenti, o meglio: pagare sempre meno per sottoscrivere una volta per tutte le condizioni di un finanziamento. In ogni caso, il gioco che si sta giocando è al ribasso. L’Osservatorio di MutuiOnline ha da poco pubblicato i valori medi dei tassi fissi e variabili sui mutui: per il tasso fisso sui 20 e 30 anni, nel mese di marzo si è scesi all’1,92%. Solo a febbraio, la quota era del 2,11%. Ma la vera sorpresa è il record segnato dalla migliore offerta: 1,40%. La caduta è po’ meno vistosa per i tassi variabili: 0,85%, contro lo 0,89% di appena due mesi fa. Il record con il quale si è distinto il miglior prezzo, anche in questo caso, è abbastanza sorprendente: 0,18%. Fatto sta che sempre più famiglie optano (quasi l’80%) per un mutuo a tasso fisso, facendo mettere a segno da parte delle banche un risultato sperato: la fidelizzazione dei clienti. In questa sorprendente discesa dei tassi d’interesse non si può biasimare chi si mangia giusto un po’ le mani per non aver aspettato appena qualche mese a sottoscrivere un mutuo. MutuiOnline traduce, infatti, i nuovi tassi nei termini del risparmio effettivo. Ecco allora «un impiegato milanese di 35 anni (sic!) che richiede un importo di 100.000 euro a 20 anni per un valore dell’immobile di 200.000 euro». Cos’è cambiato rispetto a dicembre dell’anno scorso? Grazie alla variazione di Tan e Taeg (rispettivamente: 1,40% anziché 1,60% e 1,58% contro 1,78%), l’impiegato meneghino si trova in tasca «un risparmio annuo di 108 euro». Che ci si trovi o meno di fronte alla ripresa (o piuttosto alla tenuta) del mercato dei mutui in Italia, in parte il merito va certamente alle politiche monetarie dell’UE, cioè al Quantitative Easing. È vero: dal 2012 al 2014 – periodo di tempo in cui il QE già era in atto – il mercato è rimasto sotto la soglia dei 25mila milioni di finanziamento l’anno, a dispetto dei quasi 50mila del 2011. Tuttavia, in quei tre anni, i tassi d’interesse si sono progressivamente abbassati fino a raggiungere, nel 2015, i livelli precedenti la crisi del debito sovrano. Tenendo conto di una media tra tasso fisso e variabile, stiamo parlando di una discesa dal 4,26% al 2,75%. A quel punto, con un’economia stabilizzata e in lieve crescita, anche i mutui sono tornati a crescere, fino ai quasi 50mila milioni dello scorso anno. Certo, si è ben lontani da quel 5,7% del 2007, cioè dal tasso d’interesse richiesto dalle banche per i 67mila milioni di finanziamenti sottoscritti allora dai richiedenti. Il risultato, in quel caso, andava senz’altro ascritto a un mercato immobiliare florido: un mercato che, grazie alla rivalutazione degli immobili e le conseguenti promesse di guadagno, poteva permettersi tassi che oggi sarebbero considerati fuori mercato. Ma, si sa, è bastato qualche anno per dimezzare la compravendita degli immobili: da 800mila a nemmeno 400mila. Nel frattempo, il valore delle case è crollato. Con un mercato immobiliare in ripresa, ma ancora lontano dalle glorie dei primi anni Duemila, le banche, forti della spinta creditizia europea (e avvalendosi di misure statali come gli ecobonus e gli incentivi sulle ristrutturazioni) hanno fatto leva sui tassi. Il risultato è stata l’espansione del mercato, trainato dal successo delle surroghe: a ottobre 2016, il 57% delle richieste di mutuo aveva come finalità proprio la surroga, cioè la sottoscrizione di finanziamenti con istituti di credito diversi e a condizioni ritenute più vantaggiose. La quota delle richieste di surroga, ancora piuttosto alta, ammonta ora invece al 47%. A fronte di spread difficili da abbassare ulteriormente, cioè nella situazione attuale, la contrazione delle surroghe è destinata a continuare. Bloccata la strada dell’abbassamento dello spread, la via che alle banche resta da percorrere sembra consistere nell’allargamento del credito. Nello specifico: erogando finanziamenti oltre l’80% del valore dell’immobile. La strategia, hanno fatto notare diversi commentatori, non è solo quella di ampliare il volume delle sottoscrizioni di finanziamento; la prospettiva che gli istituti di credito inseguono è anche quella di aumentare il numero di clienti cui sottoporre altri prodotti finanziari (e la gamma è vasta), magari redditizi quanto basta per coprire le spese di un mutuo da pagare. Come si diceva: fidelizzare i clienti. Il terreno su cui si muovono le banche, però, non manca di qualche insidia. Primo, il tasso di insolvenza, che oltre la soglia dell’80% triplica. Secondo, l’elargizione creditizia temporalmente limitata da parte della Banca Centrale Europea, che sembra invece data per scontata. Eppure, allargare il credito senza curarsi troppo dei rischi, anche altrove, sembra essere l’unica soluzione. A sostegno di una crescita dei consumi che stenta, negli Stati Uniti stanno avendo sempre maggior successo i prestiti detti non-prime, che alimentano il mercato immobiliare ma, in parte, anche quello automobilistico. Impossibile, aldilà delle rassicurazioni, non pensare ai famigerati sub-prime sotto altra forma; si tratta, infatti, di prestiti la cui restituzione è messa parzialmente in dubbio dallo storico dei contraenti. In ogni caso, ammettendo anche che si tratti di qualcosa di diverso (più controllato) dei sub-prime, sia l’operazione delle banche statunitensi, che quelle delle banche italiane si basa sull’ipotesi, in primo luogo, di una rivalutazione del mercato immobiliare; ancora di più, però, sull’ipotesi di una generale ripresa dell’economia e, quindi, dei consumi, che si tradurrebbe infine in una maggior compravendita degli immobili. L’obiezione, tuttavia, è molto semplice: l’ipotesi è tutt’altro che scontata.

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Il debito americano ora fa tremare anche l'Europa

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 13.04.2018

Provate a immaginare: avete un’impresa e state facendo un bilancio delle vostre entrate/uscite. Ricavate molto, ma le spese sono sempre di più: così, spesso, ricorrete ai prestiti. Da un po’ di tempo, lo fate sistematicamente e i prestiti, vi rendete conto, ormai superano le entrate. Fate un calcolo e scoprite che quei prestiti o, per parlar chiaro, quei debiti stanno crescendo a una velocità 10 volte maggiore rispetto alle entrate. L’azienda, di fatto, sta fallendo. Ma non trattandosi di un’azienda, bensì della prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, le cose si fanno più complicate. Le stime sul debito americano, che con la fine del mandato di Obama prevedevano uno sforamento della soglia dei 20mila miliardi nel 2020, sono state radicalmente corrette: il debito americano ha già raggiunto la quota di 21mila miliardi (105% del Pil) e secondo le proiezioni, nel 2028, arriverà a 33mila miliardi. È vero: uno Stato non è un’azienda e tantomeno si comporta come un privato. Nessuna banca o carta di credito, del resto, permetterebbero simili livelli di indebitamento. La differenza sostanziale è che uno Stato è dotato di una Banca Centrale che può stampare moneta. Detto questo, bisogna ammetterlo: a partire dall’allarmante crescita del debito pubblico, l’economia americana dà segnali preoccupanti. Certo, anche nel 2017 è riuscita a incrementare il suo Pil, +2,5%; il prezzo da pagare, però, è stato un aumento del deficit di bilancio del 6%. Non solo: se la disoccupazione è al minimo (3,8%), la scarsità di lavoratori specializzati crea il rischio concreto che la disoccupazione torni a salire. Nel caso del debito dei privati, le cose vanno ancora peggio: crescono i debiti per l’acquisto di automobili, le carte di credito segnano sempre più passivi e sempre meno studenti sono in grado di onorare il loro debito – negli ultimi due anni, i casi di insolvenza sono saliti del 5% all’8%. Il tenore di vita può essere sostenuto solo così: con un debito di qualche trilione di dollari sulle spalle. Aggiungeteci la combinazione di una politica monetaria di stabilizzazione da parte della Federal Reserve (che ha annunciato un rialzo dei tassi) e la politica di spesa pubblica, corredata dal taglio delle tasse, promessa da Donald Trump. Sulla cui amministrazione, si sa, incombe anche la guerra commerciale con la Cina. La quale è tutt’altro che un nemico qualsiasi: 1.050 miliardi di titoli di debito americano sono posseduti, infatti, proprio dalla Cina (al primo posto c’è il Giappone, con 1.100 miliardi). Se Pechino, nella peggiore delle ipotesi, dovesse rifiutarsi di acquistare i titoli di debito americano, l’unica soluzione alternativa sarebbe quella di trovare nuovi acquirenti. Con il rischio, o meglio, la certezza che per comprare i titoli, i tassi di interesse si alzerebbero. Il valore del dollaro scenderebbe, più o meno bruscamente, provocando un’instabilità sui mercati che si propagherebbe all’istante anche da questa parte dell’Oceano. Con ciò, aldilà delle conseguenze di un’ipotetica guerra commerciale tra Cina e USA, lo scenario di una prossima recessione dell’economia americana è temibile tanto quanto è credibile. Il colosso del risparmio gestito PIMCO aveva previsto sarebbe arrivata per il 2022. Ma, dati alla mano, può darsi che accadrà anche prima. Quali pericoli corre il debito italiano? Molti, anche se paradossalmente gode di una migliore salute: se quello statunitense è di 167mila dollari per contribuente, in Italia la cifra scende a 53mila dollari. Le famiglie italiane, inoltre, hanno un patrimonio netto che le pone al 3° posto al mondo per ricchezza, contro quelle statunitensi, che si posizionano al 19° posto. Secondo il Sole 24 Ore, i patrimoni netti delle famiglie italiane sono, i media, pari a sette volte il reddito disponibile, sei volte il Pil, quattro volte il debito pubblico. La controprova? Negli Usa, le politiche di riduzione del debito sono normalmente collegate a piani di tagli alla spesa militare, al settore pubblico e sanitario. In Italia, si parla invece, spesso, dell’introduzione di un’imposta patrimoniale. A far temere, perciò, non è il debito dei privati. La salute dell’economia italiana nel suo complesso, invece, sì: difficile credere che la flebile ripresa resisterebbe a una fase economica anticiclica, così come alla conseguente tempesta finanziaria, proveniente dagli USA. Una recessione americana, oltre a provocare l’incertezza sui mercati, renderebbe poi appetibile per la speculazione accanirsi sui punti deboli delle economie europee: nell’occhio del ciclone finirebbero anche i titoli di debito italiano. Così come accaduto nel 2011, lo spread sui titoli comincerebbe a salire e il rischio di default si farebbe di nuovo vicino. Che fare, dunque? Una proposta avanzata da alcuni economisti, tra cui Marcello Minenna sulle pagine di Repubblica, riguarda l’emissione di titoli di debito combinata con il Quantitative Easing. Il QE, infatti, garantisce ancora per i prossimi nove mesi un programma di acquisti di 30 miliardi al mese e di 10 miliardi per gli ultimi tre. Per farlo fruttare al massimo però – e qui arriva l’idea – servirebbero titoli a scadenza più lunga: la loro durata temporale permetterebbe infatti alla BCE di congelare parte del debito pubblico degli Stati europei, mettendoli al sicuro dalla speculazione. Corredando il tutto con un sistema premiante per quei paesi che si impegnino nella riduzione del deficit, l’Europa darebbe un segnale di coesione e visione strategica in previsione di una possibile recessione. La speculazione avrebbe le armi spuntate. Un simile programma di acquisti, però, presupporrebbe una decisione politica collegiale dell’UE, che difficilmente si potrebbe realizzare nel breve periodo, o darsi del tutto. La disunità europea potrebbe tornare a costare cara.

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Dimenticate le filiali. Il futuro delle banche è online

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  • Banche e prodotti bancari
Scritto il 09.04.2018

L’Associazione Bancaria Italiana (ABI) ha dato il via, questa mattina, al suo annuale evento milanese rivolto ai rappresentanti direzionali e decisionali degli istituti di credito, agli stakeholder e alle autorità di regolamentazione di settore. Il forum è dedicato quest’anno a: “Relazione banca - cliente retail, la comunicazione, i social network e la sostenibilità” (il nome dell’evento, sui social, è #ILCLIENTE). I temi sono di indubbia attualità, anche se l’attenzione maggiore è probabile verrà rivolta a uno dei tre punti toccati: la relazione tra le banche e i clienti al dettaglio, o meglio ancora tra le banche e i profili dei loro clienti. Già, perché il rapporto tra le banche e i clienti sta cambiando, ed è evidente. A fare da sfondo al convegno organizzato da ABI ci sono senz’altro, infatti, i risultati di una ricerca pubblicata proprio da ABI insieme a Gfk, azienda di ricerca sociale e di mercato. Il risultato è che nel 2017 la quota di utenti che ricorre a Internet o allo smartphone per accedere ai servizi di online banking ha raggiunto il 62% sul totale dei correntisti. Stiamo parlando di circa 18 milioni di italiani. Una crescita di 2 milioni di utenti in un anno, secondo la medesima ricerca, effettuata lo scorso anno e un aumento del banking on-line del 19%, sul totale, negli ultimi 5 anni. Risultati simili, leggermente al ribasso (56%), sono stati pubblicati tra l’altro anche dal Politecnico di Milano. Certo, le cifre e la sorpresa si ridimensionano se le si mette in relazione a una rilevazione analoga fatta sul totale della popolazione europea (e non solo sui correntisti) tra i 16-74 anni. I dati, forniti da Eurostat, rivelano casi sorprendenti per paesi come l’Olanda o i Paesi Bassi, dove il banking online raggiunge o sfiora il 90% della popolazione. La media europea, invece, si attesta attorno al 50%. Le quote di Inghilterra, Francia e Germania sono attorno o al di sopra del 60%. L’Italia, posizionandosi tra Croazia e Portogallo, supera di poco il 30%. Il risultato è a suo modo inequivocabile: il livello di diffidenza nei confronti dei servizi digitali, dovuto anche a casi di vero e proprio analfabetismo digitale (o di digital divide) resta sopra la media. Come controprova di un atteggiamento diffuso, si potrebbe citare l’utilizzo del contante al posto del pagamento con metodi digitali: 80 operazioni con metodi alternativi al cartamoneta ogni anno per abitante in Italia, contro le 202 dei paesi europei. La marcia verso la completa digitalizzazione dei servizi bancari, perciò, non è così spedita come sembra; aldilà di ciò, però, il trend esiste e si rafforza. Insomma: è solo questione di tempo. E in parte è già realtà, una realtà che sembra aprire agli istituti di credito anche diverse opportunità. La presenza di più canali per poter raggiungere i servizi bancari, infatti, porta la clientela a interfacciarsi sempre più spesso con gli istituti di credito: chi lo fa al massimo ogni due giorni è passato dal 37% al 43% in soli due anni. In questo caso, disponibilità e comodità sono i fattori più premianti. D’altro canto, se si contano anche gli sportelli bancomat, il numero di correntisti che effettua operazioni di natura digitale o automatica sale al 95%. Inoltre, un giovane (18-35 anni) su tre si è dimostrato piuttosto interessato a strumenti di risparmio e di investimento online gestiti attraverso la propria banca. L’unico risvolto della medaglia si ridurrebbe perciò all’ambito occupazionale interno al settore bancario, colpito come altri settori da forme di automazione o disintermediazione. Nel 2009 il settore bancario costituiva l’1,5% dell’occupazione ma già nel 2016, con decine di migliaia di posti in meno, si è scesi all’1,3%, per un totale di 299mila occupati. E nella prospettiva di riduzione delle piccole filiali, il numero è destinato a scendere. “Phy-gital” (crasi tra “physical” e “digital”) è uno degli slogan del convegno di ABI, anche se è difficile credere che i canali fintech porteranno nuove persone fisicamente in banca. Anzi: l’interazione con la filiale bancaria è scesa a 1,3 volte al mese, contro le 4,6 con il bancomat e le 7,9 con l’home banking (dati Accenture-Nielsen). Ma altrettanto difficile è credere che l’obiettivo sia proprio quello di far tornare le persone fisicamente in banca. Piuttosto, l’obiettivo è fornire canali sempre nuovi e differenziati per effettuare in comodità e semplicità tutte le operazioni di cui si ha bisogno. Con la prospettiva di vedere diminuire i costi anche per i clienti.

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Fondi o ETF? L’importante è avere un buona consulenza finanziaria

Scritto il 06.04.2018

Le ultime dal confronto tra gli ETF e i fondi comuni d’investimento arrivano dal Barometro di Morningstar, analisi semestrale che interessa 3.500 fondi statunitensi, cioè il 61% degli asset gestiti, per un totale di oltre 11mila miliardi di dollari. Il risultato riferito al 2017 sembrerebbe, in un’ipotetica sfida, decretare un vincitore: con un incremento notevole degli investimenti, + 692 miliardi, contro i quasi 7 miliardi persi dai fondi comuni, gli ETF sembrano avere avuto la meglio. Il dato trova conferma anche in Europa, dove la crescita dei fondi indicizzati ha raggiunto il 30% in un anno. Ma, a questo punto, ecco la sorpresa: il “tasso di successo” delle masse gestite attivamente è passato, in un anno, dal 26% al 43%. Com’è stato possibile? Secondo il team di Morningstar, sono almeno due gli elementi da tener presente. Primo, la relativa eccezionalità del dato monitorato e, secondo, il successo trainante dei fondi a basso costo. Anche il Sole 24 Ore, avvalendosi della società di consulenza Norisk, offre raffronti analitici tra categorie di fondi comuni d’investimento e gli ETF comparabili. Per esempio, solo un mese fa, sono stati messi a confronto i fondi obbligazionari corporate euro e il comparabile Amundi Euro Corporate. Il rendimento, su tre anni di raffronto, si è dimostrato praticamente identico: +1,8% nel caso dei fondi attivi, +1,9% per i passivi. C’è però una differenza importante rilevata nella ricerca: i costi di sottoscrizione e di gestione dei fondi attivi, in alcuni casi, si sono rivelati fino a 10 volte inferiori per gli ETF. Con la conseguenza che hanno inciso in maniera significativa sui rendimenti. A godere di cattiva fama, nell’ambito del risparmio gestito, non sono però solo i costi di gestione. Ancora Norisk ha fatto notare che nell’arco di un triennio, a fronte di mille euro investiti, ad alcuni risparmiatori è capitato di arrivare a perdere fino a 60-70 euro, contro un guadagno delle società di gestione di circa 80 euro. Oltre al danno, la beffa. Certo, chi si occupa di risparmio gestito è ben consapevole di questi limiti. E, nonostante ciò, può offrire dei solidi argomenti per optare sulla gestione attiva: prima di tutto, i fondi attivi si dimostrano in molti casi ben più dinamici e capaci di interpretare – o ancora: di cavalcare o governare – i repentini cambi di rotta del mercato; inoltre, un efficace sistema di incentivi porta da parte dei gestori alla volontà di massimizzare i rendimenti, e rende meno favorevoli le condizioni di un eventuale moral hazard. In Italia, per esempio, secondo uno studio di Intermonte e del Politecnico di Milano, gli unici asset che si sono adeguati tempestivamente all’introduzione delle nuove normative in ambito Pir sono stati proprio quelli gestiti attivamente. Al contrario, altri strumenti compatibili ma meno flessibili (capitali di rischio, private equity, mini- bond, crowdfunding e prestiti personali) non si sono ancora adeguati. E poi: siamo davvero sicuri che gli strumenti indicizzati non abbiano bisogno di essere gestiti da parte di esperti del settore, soprattutto se c’è la volontà di combinarli tra loro? Come sapere quale combinazione di ETF acquistare sul mercato per massimizzare i propri profitti, senza l’ausilio di un professionista? Verrebbe da dire che, indipendentemente dal tipo di investimento che si vuole fare, una soluzione obbligata resta quella di investire sulla conoscenza o, quantomeno, sull’ausilio di una consulenza professionistica.

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PIP: I Piani Individuali Pensionistici in aumento anche in Italia, ma la fiducia dei risparmiatori deve ancora crescere

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  • PIP Piani Individuali Pensionistici
Scritto il 26.03.2018

Esistono diversi modi per “assicurarsi” da una pensione economicamente sotto le proprie aspettative: uno di questi è senz’altro offerto dai PIP (Piani Individuali Pensionistici). Si tratta nientemeno di polizze vita stipulate a scopo previdenziale e a offrirle, infatti, sono proprio le compagnie di assicurazione. Per quanto complementari rispetto alla previdenza primaria offerta dall’INPS, questa e altre forme pensionistiche integrative sono riconosciute a livello di legge e normate dal Decreto lgs. 252/2005. Il funzionamento dei PIP è simile a quello delle forme pensionistiche complementari: consiste nella gestione di un piano di accumulo di capitale fino all’età pensionabile; e una volta raggiunto il traguardo fissato, il risparmiatore può goderne, in aggiunta alla pensione cui avrebbe comunque diritto. Una delle differenze più rilevanti dei PIP, rispetto alle altre forme complementari, consiste nell’individualità dell’investimento, che prescinde dalla categoria professionale o dalla situazione lavorativa: per usufruirne, il lavoratore può essere dipendente, autonomo o non essere impiegato in alcuna attività. Analogamente ai Fondi pensione aperti (gestiti anch’essi da compagnie assicurative o da istituti di credito), i PIP rappresentano un investimento piuttosto sicuro: vengono raccolti in patrimoni autonomi e separati, non utilizzabili dalle società che li gestiscono nemmeno in caso di fallimento. Trascorsi due anni, i PIP offrono, tra l’altro, la possibilità al risparmiatore di trasferire, senza oneri, il capitale maturato verso un altro strumento pensionistico complementare. Ma che fine fanno i risparmi, una volta investiti? L’attività del PIP è disciplinata primariamente da un documento (Regolamento) che definisce, tra le altre cose, l’importo dei contributi, il metodo di calcolo delle prestazioni e le politiche di investimento. In generale, si può sintetizzare, sono due i modi in cui viene gestito l’investimento: attraverso una “gestione separata”, oppure attraverso i “fondi interni”; nel primo caso la gestione è prudenziale, nel secondo, il fondo viene suddiviso in comparti (portafoglio “benchmark”) e investito in azioni e obbligazioni. Come detto, per godere di quanto accumulato attraverso un PIP, bisogna raggiungere l’età pensionabile. Per legge, è prevista in ogni caso la possibilità di anticipare quella scadenza o di prelevare una parte del capitale per motivi di salute o per l’acquisto della prima casa (art. 7 del D.lgs.124/93), purché la quota non sia superiore al 75% dell’ammontare complessivo dell’investimento. È possibile anche un anticipo per motivi personali ma, in questo caso, la soglia scende al 30%. La ritenuta sull’ anticipo è del 23%. Sul mercato, sono in circolazione ancora i vecchi PIP, contratti assicurativi esistenti prima dell’entrata in vigore del Decreto lgs. 252/2005: in sostanza, sono sottoscrizioni non ancora sottoposte agli adeguamenti previsti. Per quanto riguarda i nuovi PIP (sono quantificabili in un’ottantina quelli sottoscrivibili sul mercato assicurativo), in Italia, l’investimento interessa oltre 3 milioni di risparmiatori, con un incremento dell’8,1% sul 2016. Merito anche del fatto che investire i propri risparmi in fondi di previdenza gestiti rende: al netto dei costi di gestione e della fiscalità, in media, il 2,2%. In uno studio sui 22 principali mercati mondiali, Willis Towers Watson ha calcolato che sono 41,3 i trilioni di dollari investiti in fondi pensione istituzionali. In Italia, la cifra è di 184 miliardi. Numeri ragguardevoli, certo: parliamo del 9% del Pil italiano; ma non reggono il confronto con quanto accade nei mercati anglosassoni (Regno Unito, USA e Australia, per esempio) o in Olanda: i fondi pensionistici, lì, superano anche di 20-30 punti percentuali i Pil nazionali. Sintomo del fatto, senz’altro, che il nostro sistema pensionistico dia l’idea di continuare a reggere. Ma anche del fatto che gli italiani, in fondo, non si fidino ancora molto della previdenza integrativa.

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Quali opportunità nell'investire in Etf?

Scritto il 19.03.2018

Un inizio di anno fortunato, in Europa, per gli Etf: 13,4 miliardi di euro raccolti a gennaio e 7,6 a febbraio, il miglior risultato di sempre per il primo bimestre annuale. Sul mercato italiano, gli Etf (sciogliendo l’acronimo: exchange-traded fund) sono circa un migliaio. Questa forma di risparmio, nominata “passiva”, è detta tale perché replica l’andamento di una determinata classe di investimento finanziario (obbligazioni, azioni, ma anche divise estere, metalli preziosi e risorse naturali) o, soprattutto, un determinato indice borsistico di mercato (come, ad esempio, Mib, Down Jones o FTSE). Rispetto alla gestione attiva, il cui margine operativo di chi amministra rende possibile un andamento diverso rispetto all’indice, l’investitore non deve aspettarsi sorprese: sa fin da subito che i soldi che ha investito resteranno ancorati alla replica di quell’indice o asset class. Una delle ragioni che spiega il successo degli Etf è senz’altro la semplicità d’investimento: i fondi offrono la possibilità di prendere posizione sul mercato azionario – cioè acquistare un intero portafoglio di titoli – attraverso una sola operazione di acquisto o vendita avvalendosi di un consulente, una banca o una società di intermediazione mobiliare; il fondo, infatti, è negoziabile in borsa come qualsiasi comune titolo azionario. Inoltre, non vanno sottovalutati i costi di gestione. Secondo una stima di Money Farm, «il costo di gestione di un ETF difficilmente supera lo 0,5%, mentre quello di un fondo attivo supera il 2%»: non sono previsti infatti costi di performance, di entrata e di uscita, ma un costo di gestione complessiva che, in media, ogni anno, è meno di un quarto rispetto ai fondi gestiti attivamente. Non è difficile capire perché il fondo Etf venga anche chiamato “clone finanziario”. Consideriamo, per esempio, il profilo dei rischi. Quest’ultimo, che dipende anche dal grado di diversificazione degli investimenti, ancora una volta rispecchia quello dell’indice di mercato: nei portafogli Etf si replicano esattamente i titoli che compongono gli indici di riferimento, ricreandone percentualmente gli elementi che lo compongono. Per dirla in modo ancora più chiaro: l’andamento dell’Etf è lo stesso tracciato dall’andamento dell’indice. Da questo punto di vista, la gestione attiva ha il vantaggio di poter porre rimedio, laddove possibile, all’andamento negativo di un mercato o di un asset class, modificando per esempio la composizione interna del fondo. Flessibilità, semplicità e trasparenza sono gli aspetti che rendono gli Etf sempre più appetibili. A ciò va aggiunto il fatto che, come forma di sicurezza, il patrimonio dei fondi è separato da quello delle società d’investimento che li gestiscono e regolato da market maker primari e secondari (le autorità di mercato) a garanzia della liquidità degli investimenti. Certo un costo aggiuntivo potrebbe essere implicato proprio da una strategia di consulenza per mettere al riparo i propri risparmi dall’andamento infausto dei mercati; così come preclusa è la possibilità di approfittare ancor di più degli andamenti favorevoli del mercato, attraverso una gestione attiva.

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