Federico Pani

Federico Pani

MoneyController

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Le interviste ai protagonisti di ConsulenTia20

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  • Consulenza finanziaria
Scritto il 10.02.2020

Anche quest’anno si è svolta ConsulenTia, la più grande fiera italiana dedicata alla consulenza finanziaria e al risparmio gestito, occasione d’incontro e di approfondimento per oltre 3.100 professionisti del settore. Negli incontri e nei seminari si è parlato di questioni di attualità con uno sguardo rivolto ai fenomeni di medio e lungo periodo, cioè di quei trend che caratterizzeranno i prossimi dieci anni. In particolare: i tassi d’interesse negativi, la demografia, la sostenibilità, l’ESG, la digitalizzazione e l’innovazione (disruption). MoneyController ha approfondito questi argomenti con alcuni dei maggiori player del settore presenti a ConsulenTia.   Fabio Caiani, Head of Institutional and Wholesale Distribution Italy di Nordea Investment Funds, sostiene che bisognerà confrontarsi nei prossimi anni con rendimenti obbligazionari bassi e una valutazione sulla componente azionaria in aumento su alcuni titoli importanti. Per affrontare questa situazione, Nordea farà quindi leva su strategie di bilanciamento, basandosi su Covered Bond, ma anche su prodotti Liquid Alternative e sulla componente equity, privilegiando strategie legate al mondo infrastrutturale e a temi di pregnanza internazionale e lungo periodo, come il clima. L’educazione finanziaria, ha aggiunto Caiani, è fondamentale per poter fare sì che questi prodotti abbiano successo e il tramite di maggior rilievo tra la finanza e i risparmiatori sono proprio i consulenti finanziari.   Andrea Baron, Managing Director di MFS Investment Management, afferma che i prossimi dieci anni si caratterizzeranno sulla base di tre “d”: debito, sia corporate che statale; demografia, nel senso di calo demografico nonché invecchiamento; e digitalizzazione, intesa come automazione e innovazione. Alla luce di rendimenti inferiori, Baron suggerisce inoltre di puntare su un’ampia diversificazione e di restare sugli asset class addizionali, dunque equity e bond, dato che la parte meno liquida dei mercati, oggi, ha valutazioni superiori. “Lato Equity, dal nostro punto di vista, serve una strategia flessibile, una exposure globale e una diversificazione mediante valute, per salvaguardare l’ottimo risultato di questi anni, piuttosto che pensare a un’ulteriore performance. Sul lato del mercato dei Bond (High Yield soprattutto), vale lo stesso: non va dimenticato che mancano proprio le controparti che, un tempo, avrebbero assorbito le vendite, come le banche d’investimento o i broker. Perciò: portafoglio ampio, globale, ampia flessibilità settoriale, posizionamento attivo sulla curva dei tassi con una duration in linea con il benchmark”.    Federico Domenichini, Head of Advisory – Italy di T. Rowe Price, conferma ancora una volta che ci troveremo in un mondo caratterizzato da tassi bassi: “Tutte le strategie obbligazionarie difensive sono destinate a non essere nel portafoglio; Global Income e High Yield giocheranno quindi il ruolo più rilevante, magari inserendo elementi di emerging market corporate”. Dal punto di vista azionario, invece, a farla da padrone saranno le imprese innovative che genereranno disruption: “Secondo noi, il 31% della capitalizzazione dello S&P500 è a rischio disruption. L’obiettivo è investire  quindi nei newcomers, cioè nelle aziende che sostituiranno le imprese con tecnologie obsolete”, oppure individuare chi invece non sarà coinvolto: “per noi, per esempio, il mercato delle utilities americane resterà intatto, caratterizzato com’è da forti barriere in entrata e da un efficientamento dei processi energetici, basati sulle rinnovabili, che permetterà a quelle aziende di avere margini ben superiori al passato”.    Marzio Gussago, Sales director di Pictet Asset Management, sostiene che per poter interpretare correttamente i prossimi dieci anni, bisogna considerare il decennio appena trascorso, dove si sono affacciati “molti fattori esogeni destabilizzanti per le logiche finanziarie (fallimenti di stati, crisi dell’euro, l’ingerenza delle Banche centrali) fino al nonsense di un mercato obbligazionario con rendimenti negativi”. “Ad ogni modo, i grandi trend del decennio – dice – sono quelli che anche i clienti finali hanno sotto gli occhi ogni giorno, soprattutto la digitalizzazione, che riguarda la comunicazione così come il mercato della salute, come la filiera finanziari. Parliamo di costi inferiori, margini superiori e un impatto positivo sulla sostenibilità. Questa è e sarà certamente una componente tipica di un portafoglio d’investimento orientato al valore. Diciamo così: se c’è un riscontro nella vita quotidiana e nell’economia reale, allora c’è la maggior speranza matematica di guadagnare in borsa”. “La componente della sostenibilità ed etica (ESG) – prosegue Gussago – diventa poi un fattore cruciale per capire quali aziende stanno facendo meglio il loro lavoro: è lì che si stanno concentrando sempre più la domanda, l’attenzione e la selezione da parte dell’industria e dei consumatori”. Gussago, infine, sostiene che le società di gestione debbano assumere con uno specifico ruolo di storytelling: fare capire non solo la natura del prodotto, ma anche la natura delle aziende collegate e, più in generale, come cambia il mondo. Per comunicare, Pictet parte naturalmente dal sito web, ma mette a disposizione dei road show e degli incontri rivolti anche alla clientela privata.    Carlo Benetti, Market Specialist di GAM Italia, fa riferimento ad alcune tendenze abbastanza sicure: “C’è un nord del mondo che invecchia (46-47 anni di età in media) e un sud che è più giovane e più produttivo. Nelle pieghe di questa asimmetria demografica si possono intravvedere temi di investimento, come per esempio i consumi: nel 2030 la classe media si allargherà a 5 miliardi di persone e ci saranno conseguenti sviluppi anche nella sanità (health care) e nella previdenza. Assisteremo poi a una rivoluzione tecnologica che coinvolgerà trasversalmente tutte le attività produttive e solo chi saprà inserirsi nella frontiera dell’efficienza sopravvivrà sul mercato”. Il consulente, in questa partita, è il punto di congiunzione tra il mondo della finanza e il risparmiatore. Anche la stampa specializzata e le società di gestione giocano un ruolo decisivo, in quanto impegnate in una costante opera di aggiornamento e formazione che, per funzionare, dovrebbe essere caratterizzato da “un linguaggio di verità e di chiarezza”. “Un risparmiatore informato – sostiene Benetti – è anche un miglior cliente”.    Sul tema della sostenibilità e dell’ESG, per quanto alcuni credano che ci si trovi di fronte a un’esasperazione, per Benetti assumere degli abiti virtuosi non è un male. I criteri ESG sono destinati a rimanere: non si tratta di una semplice bolla. Infine, per quanto riguarda l’automazione finanziaria (robo advisoring, per esempio) Benetti crede si tratti di un’opportunità più che di una minaccia: “Non c’è dicotomia tra l’algoritmo e il consulente: tanto più l’automazione toglie il lavoro allocativo, tanto più il consulente ottiene tempo liberato per gestire un patrimonio”.   Marco De Micheli, Senior Sales Manager di AXA Investment Managers, crede che il mercato potrebbe rallentare nella seconda metà di quest’anno e portare quindi a uno storno delle borse. “Più che fondi direzionali tematici (fatti salvi i piani di accumulo) sarà importante quindi avere dei fondi flessibili. In ambito obbligazionario, infatti, stiamo spingendo AXA Global Strategic Bond che mette insieme strategie di protezione e di carry. Il flessibile azionario, invece, si chiama Global Optimal Income”. Già: ma quali sono le strategie per fare conoscere agli investitori i propri prodotti? “Al netto degli obblighi di comunicazione, il modo migliore per noi fornitori è quello di fare attività sui team di Advisory, ma anche promuoversi sul territorio interloquendo con i singoli team di consulenti”.   Per Invesco, riportiamo il contributo dell’Investment Strategist Luca Tobagi.   Dott. Tobagi, quali strategie e quali prodotti da qui ai prossimi 10 anni? Un orizzonte temporale di 10 anni potrebbe essere abbastanza lungo da consentire anche a chi ha una tolleranza del rischio medio-alta (non solo sufficientemente alta) la costruzione di un portafoglio ben diversificato che investa una porzione del patrimonio adeguata al proprio profilo anche in attività finanziarie “rischiose” in quanto esposte all’andamento del ciclo economico. Gli esempi principali di tali asset class sono azioni, obbligazioni societarie ad alto merito di credito e ad alto rendimento e obbligazioni dei Paesi emergenti. Il contesto è ancora dominato dall’incertezza e la volatilità tornerà, quindi “diversificazione” è la parole-chiave. Per questo tipo di attività, a seconda del grado di efficienza del mercato sottostante, si può optare per ETF che replichino gli indici (ad esempio sul mercato azionario USA) o strategie attive (ad esempio nel mondo dei bond corporate ed emergenti o nell’azionario europeo ed emergente), laddove i team di gestione dispongano delle necessarie competenze. Un’altra parola chiave potrebbe essere “income”, cioè la capacità di generare reddito dagli investimenti. Oltre a fornire un reddito periodico per le esigenze di spesa, se il flusso di reddito generato può essere risparmiato, e quindi reinvestito, fornisce un’opportunità per una revisione periodica della strategia di investimento del portafoglio.   Oltre a fornire dei prodotti, bisogna saperli comunicare per valorizzarli al meglio: qual è il modo migliore per farlo? In questo caso credo che la sincerità possa premiare: evidenziare le competenze di gestione attiva dimostrate nelle tipologie di attività finanziarie e di strategie nelle quali un approccio attivo ha più senso e maggiori possibilità di creare valore e – ad esempio nel nostro caso – evidenziare la disponibilità di un’ampia gamma di ETF con strategie passive e smart beta, che possono essere utilmente combinate con quelle attive per fornire a qualunque tipo di cliente la soluzione di investimento ritenuta più appropriata alle sue esigenze, al suo profilo e ai suoi obiettivi finanziari. Meglio quando queste possibilità si esprimono in situazioni che offrono temi di investimento strutturali, come nel caso della Nuova Via della Seta, la Belt and Road Initiative, a chi è in grado di cogliere l’opportunità, perché oltre alle competenze e alle possibilità tecniche, c’è anche una storia che si può comprendere facilmente.   ESG: moda o cambiamento strutturale della finanza? Solo il tempo potrà dare una risposta alla domanda. Noi siamo da sempre convinti che elementi legati al concetto di sostenibilità, declinato nei suoi aspetti ambientali, sociali e di governance, siano importanti nella creazione di valore di medio-lungo periodo. E che in particolare le aziende meglio gestite, in particolare quando la loro valutazione è attraente, possano rappresentare opportunità di investimento dalle potenzialità molto promettenti nel lungo termine. Per questo, considerazioni legate al concetto di sostenibilità in senso lato sono fin dall’inizio state presenti nella maggior parte dei nostri processi di investimento.   Fintech, robo-advisor, disruption: amici o nemici della consulenza? La consulenza finanziaria evolve, come la maggioranza degli altri settori. E crediamo che la penetrazione della tecnologia in ambiti sempre più estesi dell’attività di consulenza rappresenti un’opportunità, più che una minaccia. Infatti l’elemento umano e personale della relazione e della conoscenza dei clienti rimarrà il pilastro del lavoro dei consulenti. La tecnologia sarà utile per mettere a frutto le informazioni di cui il consulente dispone in virtù della relazione personale con il cliente nel modo più efficiente, completo e veloce possibile e per fornire risposte e soluzioni personalizzate a esigenze dei clienti sempre più complesse in un contesto sfidante e incerto.   Sono in molti, nel mondo del risparmio, a chiedersi quali saranno i megatrend del futuro e, soprattutto, in che modo sarà possibile sfruttarli o cavalcarli, traducendoli in investimenti concreti. Per approfondire l’argomento, sullo sfondo della fiera ConsulenTia 2020 a Roma, abbiamo raccolto il parere di Filippo Battistini,Director Head of Business Development Retail Wholesale Italy di Allianz Global Investors.    Per Battistini, nell’ambito degli investimenti, i megatrend da tenere assolutamente in considerazione sono quattro: la scarsità di risorse, i cambiamenti tecnologici, l’urbanizzazione e i cambiamenti socio-demografici. “Per quanto riguarda i cambiamenti socio-demografici, l’anno scorso siamo stati i primi ad aver lanciato una strategia sulla pet economy, cioè sulla cura degli animali domestici. Riteniamo che sia una delle modalità più pure per investire in questo megatrend: da una parte, perché ci rivolgiamo dal punto di vista emotivo alla generazione dei Millennials, che adotta sempre più volentieri un animale domestico; dall’altra, perché ci rivolgiamo così anche agli anziani, i quali hanno un particolare bisogno di compagnia. Bisogna considerare poi che presto anche la classe media cinese sceglierà di avvicinarsi ad uno stile di vita simile a quello occidentale, per cui l’animale domestico diventerà anche in quel paese uno status symbol”.    Battistini ricorda che AllianzGI presidia anche gli altri tre megatrend. “Per quanto riguarda l’innovazione, per esempio, AllianzGI è stata la prima in Europa a lanciare una strategia sull’Intelligenza Artificiale più di tre anni fa”. Nell’ambito della scarsità delle risorse, invece, in particolare, punta sul fondo “Allianz Global Water” che concerne le società che rendono più efficienti il servizio idrico e la gestione della risorsa. “Aggiungo che abbiamo recentemente lanciato una strategia che si chiama “Allianz Smart Energy” e che investe nelle società che sono attive nell’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili o specializzate nell’immagazzinarla; da questo punto di vista, i produttori di batterie al litio sono all’avanguardia ed è su di loro che bisogna principalmente puntare. Per quanto riguarda l’urbanizzazione, invece, abbiamo lanciato una strategia denominata“Allianz Global IntelligentCities”, puntando sulle società che sono anche in quel caso più avveniristiche e che rendono le nostre città sempre più connesse e intelligenti”.   In quanto parte del più grande gruppo assicurativo al mondo, AllianzGI ha sviluppato delle competenze distintive che le hanno permesso di mettere a disposizione degli investitori le soluzioni cosiddette “a decumulo”. “Finora – ha detto Battistini – ci siamo più spesso confrontati con attività di risparmio legate all’accumulo. Si trattava, del resto, di generazioni in età lavorativa (gli attuali baby-boomers) che mettevano da parte i loro guadagni per fare crescere i loro risparmi. Ora, invece, abbiamo a che fare con una fascia della popolazione, sempre più in crescita, che deve sopravvivereanche 20 e 30 anni dopo la cessazione dell’attività lavorativa e che desidera assicurarsi un buon tenore di vita anche in quegli anni. Le soluzioni di decumulo che offriamo si attagliano perciò a quelle esigenze di mantenimento del valore di vita, impiegando il capitale risparmiato, erogato sotto forma di rendita”.

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Salone SRI - reportage di MoneyController

Scritto il 21.11.2019

MoneyController, la rivista digitale che fa incontrare la domanda e l’offerta di consulenza finanziaria in rete, è attenta all’evoluzione delle forme del risparmio gestito. Una delle prospettive più rilevante dei nostri anni è l’ESG (Enviromental, Social and Governance), settore degli investimenti che favorisce la sostenibilità ambientale e sociale. Al Salone SRI (Socially Responsible Investor) di Milano (20 novembre 2019), MoneyController ha raccolto le esperienze più rappresentative in questo ambito delle SGR, delle società d’investimento, nonché di alcuni consulenti finanziari.   Nordea ha esordito nel 2008 con il fondo Global Climate and Enviroment Fund, cui sono seguiti i primi fondi azionari e obbligazionari, di cui tre nuovi solo quest’anno (uno di essi è il Global Gender Diversity Fund). La sensibilizzazione agli investimenti sostenibili viene fatta mediante training e visitando le aziende, nonché lavorando con aziende di certificazione indipendenti come LuxFLAG e gli altri professionisti del settore.   Invesco offre una gamma di ETF di stampo ESG, di cui 5 quotati su Milano. Un ETF è senz’altro il più particolare: si tratta di un ETF cattolico, ovvero in linea con i valori dettati dalla Conferenza episcopale italiana. Dall’esperienza della società d’investimento con sede ad Atlanta, si evince come la sensibilità all’investimento sostenibile sia prevalentemente europea, e ancora trascurata invece in Asia e in America.   Franklin Templeton è soprattutto attiva nell’obbligazionario con Franklin Liberty Euro Green Bond e nel multi-fattoriale con Franklin LibertyQ Global Equity. Sulla sua pagina in rete, la società fa riferimento con insistenza alla realtà ESG. All’esigenza dei consulenti finanziari viene incontro fornendo un glossario dei concetti e un’Academy che consiste in un corso interamente gratuito.   NN – Investment è dal 1999 che ha messo in campo prodotti di stampo ESG, integrandoli con una corrispondente policy aziendale. Tra il 66 e il 67% della massa dei prodotti azionari e obbligazionari è certificata come ESG. Il prodotto di punta è uno dei più grandi Green Bond presenti, dal valore di 1,2 miliardi di euro. Il valore aggiunto green dei prodotti viene approfondito in sede di vendita, ma la società organizza anche convention ed eventi specifici al fine di sensibilizzare professionisti e investitori.   iShares offre una gamma diversificata di ETF che consentono di investire secondo criteri ESG con uno spettro completo di obiettivi e asset class e ad un costo, in molti casi, pari a quello degli altri strumenti core. La gamma è suddivisa in tre segmenti: il primo che esclude le aziende che operano in settori controversi; il secondo che comprende anche le aziende che limitano l’impatto di CO2 nell’ambiente (la carbon footprint); il terzo che premia le aziende best in class, cioè le più virtuose nel perseguimento della sostenibilità. In totale, sono 28 gli ETF registrati in Italia. La promozione dei prodotti con risvolti ambientali e sociali positivi avviene mediante road show organizzati ad hoc e attività commerciali specifiche.   Etica SGR porta avanti per scelta investimenti sostenibili al 100%. Il prodotto bilanciato è senz’altro il blockbuster della casa prodotto, il quale investe su aziende con una mission specifica di riduzione dell’impatto climatico, di un’economia low-carbon e dai risvolti etici. Le azioni di sensibilizzazione si indirizzano sia verso gli investitori istituzionali che retail. Inoltre, l’ufficio analisi-ricerca produce una costante reportistica sull’argomento.   Natixis ha come politica quella di garantire agli investimenti sempre un livello minimo di impronta ESG. 5 case di gestione sono altresì operanti specificamente per impattare positivamente sulla società e sull’ambiente. L’obiettivo di sostenibilità non trascura però il lato della performance: sostenibilità, per la banca, significa investimenti e rendita sul medio-lungo periodo (cioè su settori destinati a rappresentare il futuro) e non semplice green washing. Mediante la reportistica e la formazione ai consulenti il messaggio arriva anche ai piccoli risparmiatori.   Raiffeisen Capital Management offre soluzioni d’investimento SRI in tutte le asset class, il prodotto di punta è il Raiffeisen Bilanciato Sostenibile. Tutte le informazioni sugli investimenti sostenibili sono disponibili sul sito, inoltre un appuntamento ricorrente sono le serate di formazione con i professionisti della finanza e i clienti.   Eurizon punta molto sui green bond, l’obbligazionario che sostiene l’economia che ha un impatto positivo sull’ambiente. Agli interlocutori viene trasmesso il valore aggiunto dell’investimento sostenibile anche sul piano dei titoli corporate, con una specifica attività di orientamento delle politiche aziendali (stewardship). La formazione dei consulenti finanziari avviene soprattutto nelle reti.   I consulenti intervistati, appartenenti a diverse Società, convergono sull’importanza di proporre prodotti di risparmio ESG, ai loro clienti nella loro attività di consulenza. Con ciò, i medesimi professionisti si dimostrano concordi anche sul fatto che i risparmiatori sono ancora lontani dal percepire l’importanza degli investimenti con risvolti sociali e ambientali. Alla scarsa proattività dei risparmiatori si contrappone però il mondo degli operatori, già pronti e orientati a servire un’ampia gamma di prodotti ESG. La loro sfida consiste oggi nel convincere gli investitori che la sostenibilità ambientale e sociale significa anche, e soprattutto, profitto nel medio-lungo periodo.

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La storia delle Borse II

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 14.11.2018

Tra il 1929 e il 1932, lo schianto subito dalla Borsa valori americana fu scioccante. Le imprese quotate sul listino Dow-Jones persero l’89% del loro valore. Neppure le due più grandi aziende di allora, a cui si doveva l’elettrificazione e la motorizzazione del paese, furono risparmiate: le azioni della General Electric passarono dal valore di 1.612 dollari ciascuna a 154; quelle della General Motors, da 1.075 a 40 dollari. Nel 1932, all’indomani delle elezioni presidenziali, Franklin D. Roosevelt promise nuove regole e, come prova di forza, fece chiudere il New York Stock Exchange per una settimana. La costituzione della SEC (Securities and Exchange Commission) fu il passo successivo: il Governo federale avrebbe controllato in modo diretto Wall Street, servendosi di una commissione permanente. Il clima, fra gli investitori, non poté che mutare. E a diffondersi fu un generale senso di disillusione. Come ammise, tempo dopo, Harold Geene, ex amministratore delegato di ITT Corporation, “In quegli anni fu difficile continuare a credere in Wall Street; la voglia era quella di andarsene e trovare qualcosa di più concreto di cui vivere”. Ma nonostante il crollo, e la depressione mondiale che seguì, il ruolo finanziario delle Borse valori non fu mai davvero messo in discussione. In tutto il mondo, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, si contavano ben venti milioni di investitori in titoli di Stato e società private e, nel 1929, le Borse valori erano attive in cinquanta Paesi, ovvero in quasi tutti gli Stati allora indipendenti, compresi quelli che di lì a breve lo sarebbero diventati, come l’India, le Filippine e perfino l’Indonesia. La maggior parte di esse, certo, possedeva ancora un carattere locale: erano quotati, perlopiù, istituti di credito o aziende collegate all’industrializzazione nascente dei paesi di appartenenza (su tutti, le ferrovie). Tuttavia, i progressi legati alle comunicazioni resero possibile lo sviluppo di un autentico sistema finanziario globale: la London Stock Exchange, indiscussa regina delle Borse fino agli anni ‘20, forte del suo impero coloniale, registrava il 53% di emittenti stranieri sul totale delle azioni quotate. Non solo: anche il livello ingegneristico finanziario continuava a crescere. Sulla base del modello americano, le Borse cominciarono a ingrandire le loro sedi e sul trading floor– che in Italia fu chiamata la “sala delle grida” – comparvero cabine telefoniche, tubi pneumatici per trasmettere gli ordini negli uffici e tabelloni meccanici sui quali controllare i prezzi in tempo reale. Sul NYSE, il numero di azioni negoziate, nel 1929, arrivò a punte di 15 milioni di titoli scambiati ogni giorno, che scesero “soltanto” a 400mila, dopo la crisi.  Negli anni ’30, la Borsa americana, dunque, più che cambiare radicalmente la sua architettura fu integrata dagli organi governativi di vigilanza, che entrarono definitivamente a far parte del suo meccanismo di funzionamento. La Commissione federale istituì un sistema di regole più severe e restrittive, di cui si ricordano: l’introduzione del reato di insider trading, quello di aggiotaggio, l’obbligo di vendita allo scoperto solo in fase rialzista, una politica dei tassi di cambio controllata, limiti ai prestiti garantiti da azioni (due misure gestite dalla Federal Reserve), nonché la separazione imposta tra banche commerciali e banche d’investimento. Non fu un caso se in Europa queste misure non si resero necessarie. In tutti i paesi, il Primo conflitto mondiale costrinse gli Stati a finanziare lo sforzo bellico, rendendo la Borsa valori il luogo privilegiato dello scambio obbligazionario statale, imponendo restrizioni alle imprese private quotate e nazionalizzando quelle strategiche; la stessa sorte toccò agli istituti di credito. Accadde, per esempio, al London Stock Exchange, costretto a chiudere nel 1914 per assumere, nel 1915, un’organizzazione più funzionale alle esigenze belliche. La storia della Borsa valori italiana è esemplare in questo senso; ma facciamo un piccolo passo indietro per seguirne più da vicino lo sviluppo.  Sebbene anche Trieste, Genova e Napoli furono sedi di importanti Borse valori, la Borsa di Milano si dimostrò quella di maggior successo e finì per imporsi come unico punto di riferimento nel panorama nazionale. Fondata per volere di Napoleone nel 1808, era decisamente improntata sul modello francese: il direttivo, le autorizzazioni e le procedure di calcolo del listino dovevano essere direttamente controllate dall’amministrazione del Regno napoleonico. Nel 1816, l’impero austro-ungarico decise di porre la Borsa milanese sotto l’egida della Camera di Commercio. Nel 1830, cominciarono a essere scambiati i titoli pubblici e, nel 1859, fu collocata sul listino la prima impresa a capitale partecipato, la Società Ferroviaria del Lombardo Veneto. Con la nascita dello Stato unitario, considerando il giro d’affari e le prospettive di crescita legate al capoluogo meneghino, la Borsa di Milano fu scelta dal Governo italiano per quotare i propri titoli di Stato. Insieme ai gruppi ferroviari, anche le banche di nuova fondazione scelsero Milano come piazza borsistica, decretandone il trionfo su scala nazionale. La crescita continuò con l’entrata nel listino di imprese chimiche, tessili e siderurgiche, ma si interruppe bruscamente con lo scoppio della Prima guerra mondiale.  L’avvento del fascismo sembrò dare una svolta di segno positivo all’attività borsistica italiana: per ospitarla, fu realizzato un nuovo edificio, Palazzo Mezzanotte, l’imponente costruzione in stile impero, che ne è tutt’ora la sede. Ornato dalle ceramiche di Giò Ponti e piuttosto all’avanguardia anche dal punto di vista tecnologico, il regime fascista fece sì che la sede diventasse soprattutto un centro di finanza pubblica: le nazionalizzazioni degli istituti di credito, da una parte, e la conversione degli agenti di cambio in pubblici ufficiali, dall’altra, penalizzarono la capitalizzazione delle imprese private. Di fatto, le cose non cambiarono nemmeno con l’avvento del regime repubblicano: complici le partecipazioni statali e la ritrosia dei grandi gruppi familiari (traino del capitalismo italiano) alle quotazioni in Borsa, lo sviluppo di quest’ultima non sembrò decollare fino alla stagione delle privatizzazioni degli anni ‘90. Diventa quindi più credibile constatare che il primo organo di vigilanza permanete e terzo, la Consob, si rese necessario agli occhi dei legislatori solo nel 1974.  Così come in Italia, anche su scala globale (con tempi leggermente anticipati), il Secondo conflitto mondiale fu seguito da un boom economico che diede un nuovo, vertiginoso impulso agli scambi borsistici. Charles Merrill ed Edmund Lynch furono probabilmente i più grandi interpreti di questa fase: fecero aprire filali della loro banca in molte zone degli Stati Uniti, puntando sul risparmio della classe media e istituendo un rapporto di fiducia e trasparenza con gli investitori; celebri furono i piani di risparmio per le donne di casa, nonché i prospetti informativi da condividere con i clienti. La platea dei risparmiatori – questa fu l’intuizione di Merrill e Lynch – doveva essere composta non solo da grandi finanziatori, ma anche dalle miriadi di lavoratori impiegati nell’industria americana. L’idea, presto seguita dagli altri grandi istituti di credito, ebbe un tale successo da provocare una crisi, oggi poco nota, avvenuta nel 1968, dovuta proprio a una domanda di titoli senza precedenti: a causa dell’inefficiente sistema di scambio attraverso documenti cartacei, il back office di Wall Street, a corto di organico, fu forzato a chiudere per diversi giorni placando le proteste degli impiegati costretti a lavorare per ore e ore senza sosta, anche durante la notte. La crisi fu risolta con l’avvento dei computer e dei sistemi telematici legati all’elaborazione dei dati.  I cambiamenti tecnologici avrebbero così, nel giro di qualche decina d’anni, mutato il volto della Borsa valori. Nel 1971, la National Association of Securities Dealers Automated System, per superare le barriere in entrata fissate dal NYSE e soddisfare la crescente richiesta di finanziamento in borsa, da parte di decine di aziende legate al settore tecnologico, diede l’avvio al NASDAQ; si trattava, questa la grande novità, di una Borsa valori priva di una vera e propria sede, il cui circuito era interamente telematico. Nel 1986, nel mondo anglosassone, questa novità sarebbe diventata la regola: in quell’anno il trading floorfu definitivamente sostituito da un circuito telematico unificato, che permise agli agenti specializzati, di lì in avanti, di inserire nei computer gli ordini di acquisto e di vendita, anziché doverli contrattare faccia a faccia – l’Italia si sarebbe adeguata a questo cambiamento solo nel 1994. Certo, l’adozione del sistema telematico non fu indolore; e l’ampio grado di perfettibilità del sistema sarebbe stato rivelato, di lì a poco, dalla crisi dell’ottobre del 1987 (Black Monday). Un intoppo avvenuto nella Borsa di Hong Kong (-11% nel giro di poche ore e la sua chiusura nei giorni successivi) causò una contrazione improvvisa delle piazze valori di Londra e, soprattutto, di New York. A causa della velocità delle operazioni telematiche, il mercato bruciò in una giornata più di quanto non fosse mai accaduto in tutta la sua storia, circa il 20% del suo valore. A differenza del 1929, però, Wall Street dimostrò un’enorme capacità di recupero nel giro di poche settimane. Paradossalmente, anzi, la lezione venne recepita piuttosto in fretta e fu l’occasione per sviluppare sistemi di contenimento delle perdite automatizzati: tra tutti, i meccanismi di stop-losse di assicurazione dei portafogli che, di fatto, riuscirono a correggere le maggiori storture del sistema.    Ma la stagione delle innovazioni tecnologiche non era ancora finita e avrebbe conosciuto almeno una seconda tappa fondamentale. Proprio mentre la Borsa perdeva il suo aspetto così caratteristico (capannelli di broker urlanti e agitanti nuove offerte su pezzi di carta), nel 1996 nacquero alcuni siti web come Archipelago e Island, piattaforme destinate a creare un’ulteriore rivoluzione nel settore delle transazioni borsistiche: gli scambi dei titoli e le comparazioni dei prezzi, resi istantanei e automatici dall’informatica, videro entrare in scena dei nuovi protagonisti, gli algoritmi. Il sistema era, a suo modo, semplice: un computer sarebbe stato capace, con l’inserimento dei giusti parametri, di svolgere il lavoro di un broker; ciò significava: capace di comprare o vendere azioni sulla base di vincoli predefiniti, legati alle quantità e al prezzo richiesto dall’investitore, con l’obiettivo di massimizzare il guadagno. Qualsiasi utente dotato di una connessione e una minima quota di risparmi sarebbe potuto diventare un potenziale investitore. Wall Street sottovalutò la novità, fino a che il volume di scambio di queste piattaforme, che si svolgevano al di fuori del circuito di transazioni ufficiali (il mercato overt the counter), arrivò a tallonare quello di New York e del NASDAQ: il web stava sprigionando una forza senza precedenti. La soluzione fu l’acquisizione delle piattaforme da parte del NYSE (2005). Il cambiamento fu drastico: prima dell’acquisizione, le transazioni eseguite a Wall Street in modo interamente manuale coinvolgevano il 90% dei casi;  in seguito, i numeri si capovolsero, come nel caso dell’equity market, che è ora dominato nell’83% del suo volume di scambi proprio dagli algoritmi. Da quasi una ventina di anni, ormai, si assiste quindi a una rincorsa tra l’evoluzione dell’ingegneria finanziaria legata alle Borse valori e le norme dei regolatori. Al centro dell’attenzione c’è senza dubbio il tema della trasparenza informativa: questa rappresenta (se garantita) la vera forza posseduta dagli investitori per dominare la mole di scambi gestita sul mercato, una trasparenza che in realtà è favorita proprio dalla tracciabilità delle nuove tecnologie. Tuttavia, la Security Exchange Commission sottolineava, analizzando lo scoppio della bolla delle dot.com, un sistematico conflitto di interessi tra analisti finanziari e le imprese quotate in Borsa. Come si leggeva nel rapporto: “Nel 2000, il NASDAQ ha perso il 60%, eppure meno dell’1% delle raccomandazioni sono state di vendere”. Con la crisi del 2007, i governi hanno provato a regolamentare il mercato, nella direzione di una maggiore trasparenza: così ha fatto l’amministrazione Obama, con l’atto Dod-Frank, seguita dall’Unione Europea, la cui ultime novità normative in materia sono state introdotte con Mifid2. Ma le sfide per il futuro non mancano e sono tutt’altro che scontate: come creare un sistema di regole per i mercati ormai dominati dagli algoritmi? Come imporre un ente regolatore, a fronte della trans-nazionalità delle piattaforma borsistiche, che hanno perso il loro carattere nazionale (come Euronext o Borsa Italiana S.p.A., acquisita dal London Stock Exchange)? Tutto ciò, per garantire che il sistema delle Borse valori continui ad avere il fondamentale ruolo di motore finanziario dell’economia, lo stesso ruolo che ha fatto la storia non solo della finanza, ma anche dell’economia globale.

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La storia delle Borse Valori I° parte

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 30.10.2018

Lo stemma della leggendaria famiglia Van der Beurs era, prima di tutto, la dichiarazione di una vocazione professionale: nello scudo araldico, comparivano tre piccoli sacchi colmi di monete. Eppure, la famiglia di Bruges sarebbe passata alla storia non tanto per i suoi successi imprenditoriali, quanto per aver concesso agli uomini d’affari un riparo dalle intemperie. Già: perché proprio in quella casa cominciò a essere stabilito regolarmente dai mercanti cittadini il valore delle monete d’oro e d’argento. Da lì in avanti, si sarebbe passati alla prezzatura e allo scambio di beni su pezzi di carta; infine, e altrove, quando la casa dei Van der Beurs sarebbe stata solo un ricordo, si sarebbe arrivati alla compravendita delle partecipazioni alle imprese commerciali. Il nome del luogo deputato a queste operazioni sarebbe però per sempre rimasto legato alla famiglia fiamminga: la Borsa. La storia della Borsa, così come la conosciamo, comincia con l’Età moderna, ma già i romani, nel tempio di Castore, attraverso i loro agenti (chiamati “publicani” e antesignani dei moderni broker), vendevano dei remoti antenati delle azioni, dette “partes”, per finanziarie campagne militari e opere pubbliche. Sebbene Cicerone racconti dell’oscillazione dei prezzi delle “partes”, non restano molte tracce di queste forme di compravendita. Perciò, bisogna passare al tardo Medioevo per vedere affermarsi qualcosa di simile, nell’Italia dei Comuni e delle Repubbliche marinare: a Venezia e a Genova, per esempio, sorsero i primi mercati obbligazionari, legati ai titoli di debito pubblico della Serenissime. Nel 1531, fu fondata la Borsa di Anversa, cronologicamente seconda soltanto a quella di Bruges, la cui sede è la prima a comparire su una mappa del tempo. Il modello olandese fu presto imitato in tutta Europa: nei decenni successivi sorsero delle Borse a Lione, a Bordeaux, a Siviglia, a Francoforte e a Londra. Se in alcune sedi veniva stabilito il valore di beni, si svolgevano contrattazioni e scambi virtuali di merci, tuttavia le Borse erano perlopiù collegate agli Stati nazionali: lì (al pari di quanto già accadeva nelle Repubbliche marinare) trovavano la loro sede i mercati obbligazionari del debito pubblico, dove avvenivano le antenate delle moderne aste dei titoli pubblici di debito. Mancava, però, ancora un ingrediente fondamentale per vedere sorgere il tipo di Borsa a noi familiare: la quotazione non solo di merci e titoli di debito, ma anche di partecipazioni a vere e proprie imprese, cioè le moderne azioni.  Nel 1602, con la nascita della Compagnia delle Indie Orientali Olandesi, il ruolo del centro finanziario di Amsterdam decollò. All’interno dell’edificio, gli investitori cominciarono non solo a scambiarsi virtualmente beni e merci, ma a contribuire, con una certa quota, alle spedizioni in partenza per le Indie Orientali. La funzione era evidente: la necessità di ripartire i rischi – e fin qui nessuna novità: la pratica era già in voga tra i marinai greci –, ma anche un modo per poter armare flotte sempre più grandi. Ma allora: perché non possedere direttamente una quota della compagnia stessa, anziché finanziare viaggio per viaggio? Nel momento in cui fu posta questa domanda, nacque il concetto di società per azioni e, con lei, la Borsa moderna. Lo stesso meccanismo si affermò quasi subito anche in Inghilterra, rivale d’Olanda nella grande avventura commerciale. La Corona inglese, che aveva già fondato la Royal Stock Exchange, si rese conto in fretta che le partecipazioni da parte di investitori privati non si sarebbero dovute limitare ai singoli viaggi per mare, ma a forme di proprietà condivise di intere compagnie di navigazione. Di più: le quote, a cui era assegnato un prezzo variabile nel tempo, come in Olanda, avrebbero dovuto essere trasferibili, cioè facilmente scambiabili. Lo Stato avrebbe potuto trarne un ricavo con quote di partecipazioni proprie e, ancor di più, con il rilascio di certificazioni e patenti di navigazione.  A Londra non esisteva, tuttavia, un luogo deputato per lo scambio di queste azioni: la Borsa londinese prevedeva solo agenti governativi. E così, fu compito delle botteghe del caffè di allora, le Coffee House, quello di ospitare le trattative degli acquirenti delle azioni di Sua Maestà. Gli annunci di vendita di quote di compagnie di navigazione venivano letteralmente attaccate alle pareti e all’interno di quei locali fumosi si svolgevano le prime forme di contrattazione di azioni. Il più celebre e frequentato divenne la Jonathan Coffee House. Nel 1698, gli ospiti di questa bottega del caffè, che nella sua storia avventurosa dovette passare anche attraverso un rovinoso incendio, trasferirono la loro sede nella Royal Stock Exchange e l’Inghilterra salutò il suo primo mercato azionario istituzionale. Qualche anno prima accadde un fatto che, a prima vista, sembrerebbe non riguardare per nulla la storia della finanzia moderna. Nel 1653, alcuni pellegrini alzarono, in una piccola stazione di posta del Nuovo Mondo, una grande palizzata per difendere il centro urbano dalle incursioni indiane. La strada fu chiamata “del muro”, “Wall Street”. Un secolo più tardi, sparito il muro e il pericolo degli indigeni, la strada divenne il cuore commerciale di New York. Proprio lungo l’arteria stradale, sotto un platano (buttonwood) di ragguardevoli dimensioni, si cominciarono a svolgere riunioni di uomini d’affari per stabilire il prezzo delle merci, delle materie prime e degli schiavi, nonché per finanziarie le prime imprese dello Stato americano. Nel 1792 i commercianti di Wall Street, come i loro predecessori londinesi, cominciarono a riunirsi in una taverna poco distante, il Tontine Coffee House. Pochi anni dopo, la bottega del caffè – ormai inadatta a ospitare folle di investitori sempre più numerose – venne trasformata in un edificio ben più alto, imponente e capiente, il New York Stock Exchange (NYSE). Per Wall Street, una prima svolta arrivò nel 1832, con l’invenzione del telegrafo, che di colpo rese obsolete le borse locali che erano sorte su tutto il territorio statunitense, accentrando nella città di Manhattan il sistema finanziario (l’inventore Morse, con evidente senso per gli affari, installò uno dei primi dispositivi proprio accanto alla sede della Borsa newyorkese). Poi, arrivò la ferrovia. L’immenso progetto ingegneristico del collegamento coast to coastfu reso possibile proprio dai capitali di Wall Street. Nel 1900, il 63% del capitale borsistico statunitense era destinato a imprese direttamente collegate alla costruzione della ferrovia. Nel frattempo, nel 1889 fu pubblicato il primo numero del Wall Street Journal. Il periodico aveva come caratteristica principale quella di presentare ai lettori un grafico redatto periodicamente da Charles Down ed Edward Johns, che riportava la media del valore delle dodici maggiori aziende quotate allora in borsa: nasceva l’indice Down-Johns, presto imitato in forma analoghe, anche nel resto del mondo.  Se nel 1900, Il NYSE non poteva competere con le quotazioni raggiunte allora dalla Borsa di Londra, ed era tallonata dall’emergente borsa di Berlino (trainata dall’industria dell’acciaio), dopo la fine della Prima Guerra mondiale, Wall Street divenne la prima piazza finanziaria del mondo. La guerra era stata vinta, l’industria cresceva e così anche i consumi delle famiglie americane. Si diffusero la radio, il mercato dell’auto esplose, anche sulle piazze finanziarie. I bollettini del mercato statunitense divennero una delle trasmissioni radiofoniche più seguite: il 40% degli americani aveva impegnato i propri risparmi in qualche forma di attività collegata alla Borsa. Del resto, nei “ruggenti anni Venti”, come disse un operatore di allora, “la Borsa per la gente significava una cosa molto chiara: soldi facili”.  Wall Street cambiò ancora una volta aspetto, diventando un enorme edificio caratterizzato da postazioni specifiche (post) dedicate alla transazione di azioni, sulla base del settore economico-commerciale di appartenenza. Ma mentre la fame di azioni crebbe in modo inaudito, un’enorme bolla finanziaria si preparava a esplodere: alimentata dall’acquisto di azioni a credito (buy on margin), dal 1924 al 1929 il valore delle imprese quotate in Borsa crebbe di oltre il 300%. Le azioni cominciarono a non essere più supportate dalle risorse necessarie per liquidarle. E il 24 ottobre 1929, quando la richiesta di liquidazioni si presentò più forte del solito, il bluff venne a galla, generando il panico: il valore della maggior parte delle azioni non corrispondeva a dollari reali; era solo carta straccia. La crisi che seguì si diffuse presto in quasi tutto il sistema economico statunitense e non ci volle molto perché arrivasse anche dall’altra parte dell’Atlantico. Qualcuno arrivò a chiedersi perfino se fosse arrivato il momento di dire addio alle Borse e al sistema economico-finanziario che attorno a esse ruotava.

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Banche e finanza: quale futuro dopo la crisi?

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  • Banche e prodotti bancari
Scritto il 01.10.2018

A undici anni dallo scoppio della crisi finanziaria e a dieci dal fallimento di Lehman Brothers, ci si trova piuttosto d’accordo nel credere che il detonatore che provocò allora l’esplosione fu uno shock di natura interbancaria. Benché su questo punto il consenso sia generale, un recente articolo dello storico dell’economia Adam Tooze (rilanciato qui in Italia da Stefano Cingolani) ne rimette in discussione l’origine puramente made in USA. Del resto, senza analizzare nel dettaglio le singole vicende che portarono ai fallimenti a catena, basterebbe ricordare, come fa Tooze, che fu proprio una banca europea, BNP Paribas, a dare fuoco alle polveri chiudendo tre fondi d’investimento, diventati illiquidi, quel 9 agosto 2007. Ma si trattava, in realtà, di una semplice miccia: la materia esplosiva consisteva nei 700mila miliardi di dollari che componevano l’ammontare del credito interbancario, quantificabile come il 700% del Pil mondiale. Come si era arrivati a tanto? Bertold Brecht, drammaturgo tedesco, scrisse che, in fondo, rapinare una banca non era un gran crimine, se confrontato con l’atto di fondarne una. L’affermazione non è solo abbastanza partigiana, ma anche piuttosto ingiusta: le banche, nessuno storico avrebbe molti dubbi a riguardo, hanno ricoperto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei commerci, dell’industria e del risparmio nell’Età moderna. E lo rivestono tutt’ora: sono agenti di deposito e prestito, dotati di un’insostituibile funzione sociale, cioè quella di allocazione dei risparmi. I depositi bancari, infatti, vengono utilizzati per finanziare prestiti e investimenti, cioè vengono immessi nel circolo dell’economia reale. Non solo: essendo i prestiti attinti da una platea di risparmiatori molto ampia, i rischi di insolvenza si riducono notevolmente e consentono ai risparmiatori di poter conservare i propri averi in relativa sicurezza, anche perché è alla banca che spetta l’onere di vagliare la bontà di un investimento imprenditoriale e, solo a fronte di un giudizio positivo, l’erogazione di un prestito. A partire dagli anni ’80 e ’90, la fame di credito aveva portato gli istituti finanziari a ingigantire l’attività di prestito, con un ritmo di crescita annuo doppio rispetto al Pil nominale mondiale. Per fronteggiare la richiesta di prestiti, le banche si trovarono nella prospettiva di dover allargare a dismisura la leva finanziaria, senza poter ricorrere a un aumento del capitale: i depositi non sarebbero bastati. La soluzione, in un certo senso, fu semplice: finanziare a debito l’attività di prestito. In che modo? Facendosi prestare risorse da altre banche o piazzando sul mercato i propri prodotti. E così, mutui e crediti, resi liquidi mediante la sottoscrizione di prodotti derivati o impacchettati in obbligazioni collocabili sul mercato azionario (in gergo: cartolarizzati), raggiunsero i mercati finanziari. Gli acquirenti potevano presentarsi come clienti al dettaglio, cioè privati risparmiatori, ma anche come investitori all’ingrosso, cioè investitori istituzionali, quali compagnie assicurative, fondi d’investimento e altre banche. Questo cambiamento, conosciuto come “innovazione finanziaria”, oltre che rendere liquide le risorse del credito, avrebbe dovuto funzionare nella direzione di una diversificazione degli investimenti, specie nell’ambito dei mercati immobiliari, spesso legati a doppio filo con i sistemi bancari nazionali. Un esempio può aiutare a chiarire il concetto. Nel 1990, una stretta sui tassi d’interessi portò alla crisi del mercato immobiliare svedese: il crescente premio richiesto sui tassi non fu più sostenibile da parte di molte famiglie, i debiti non poterono più essere ripagati e il costo ricadde interamente sulle spalle delle sei banche nazionali e dei contribuenti svedesi, costando il 9% del Pil del Paese. Un sistema di maggiore integrazione bancaria avrebbe senz’altro spalmato il rischio su un numero di investitori più ampio ed evitato che i costi sociali venissero sostenuti dalla sola Svezia. Il meccanismo di allocazione dei rischi, tuttavia, funziona solo a patto che la trasparenza riguardo i prodotti sia massima, così da fare in modo che chi si accolla i rischi ne abbia la massima consapevolezza. Nulla di tutto ciò accadde durante la crisi dei mutui americani. Banche come Bear Stearns e Lehman Brothers collocarono i loro prodotti sul mercato, senza però corredarli di un’attenta valutazione dei rischi. Le prospettive di guadagno e di liquidità offerte da questi prodotti – i quali, però, occultavano rischi ben più rilevanti di quelli attesi – li resero appetibili e finirono nella pancia di compagnie assicurative, banche e fondi d’investimento. Paradossalmente, il sistema di integrazione interbancaria diede a questo punto il grave effetto collaterale di trasformare la crisi in un’epidemia globale, che colpì le banche di tutto il mondo, da Londra a Tokyo, da Roma a Singapore, da New York a Berlino. Il grado di diffusione delle obbligazioni legate ai mutui si rivelò così esteso, che alcuni di questi titoli furono trovati addirittura negli investimenti fatti da un convento italiano di frati.

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Sui mercati, speculare è del tutto normale

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 18.09.2018

Si specula in politica, in filosofia, sul mercato immobiliare e anche sul mercato finanziario. In finanza, il significato è abbastanza preciso: speculare vuol dire acquistare per poi rivendere, o vendere per poi ricomprare, beni finanziari, con la prospettiva di guadagnare dalla variazione dei prezzi. Per quanto una parte dell’opinione pubblica lo ritenga un atto immorale e predatorio (forse per assonanza con altre forme di speculazione: vedi quella politica), la speculazione è un’operazione di per sé non solo legale, ma anche molto comune nel mondo del trading. Certo, alcune sue spettacolarizzazioni ed esasperazioni, magari condite con una buona dose di cinismo, ne hanno fatto una pessima pubblicità. Eccone un celebre esempio. Il 16 settembre 1992, il celebre Black wednesday della Borsa londinese, George Soros vendette allo scoperto dieci miliardi di dollari di sterline, scommettendo su una fase ribassista della valuta inglese. L’idea che il valore della sterlina fosse destinato a diminuire – perché venderne così tante, altrimenti? – diffuse anche in molti altri investitori la convinzione che la divisa inglese fosse sopravvalutata e provocò un’ondata di vendite a catena. Per scongiurare il peggio, la Banca Centrale inglese fu costretta a un massiccio riacquisto di sterline, senza però poter evitare che quelle ancora in circolazione venissero svalutate. Lo stesso copione fu seguito da Soros nei confronti dell’Italia: nel caso italiano, a seguito della vendita contagiosa di grandi capitali di lire, la valuta perse il 25% del suo valore e fu necessario da parte della Banca Centrale italiana il ricorso a 48 miliardi di dollari di riserva. L’operazione speculativa fu tutt’altro che indolore, tanto da costringere entrambi i paesi a uscire dal Sistema Monetario Europeo e a varare impegnative manovre finanziarie. Il gesto di Soros, che fruttò al finanziere qualche miliardo di dollari, divenne un caso di scuola di speculazione. Si trattava, infatti, di una tipica azione di trading, detta in gergo “andare short”, cioè una speculazione ribassista: vendere sui massimi di alcuni beni, per ricomprare poi sui minimi degli stessi, fatto salvo l’avverarsi della previsione di una discesa dei prezzi. Al contrario, se la previsione di Soros fosse stata quella di un apprezzamento della valuta, la strategia sarebbe stata rialzista, cioè di acquisto sui minimi e vendita sui massimi. Del resto, dal punto di vista legale, tutto fu regolare; e lo stesso businessman di origini ungheresi ha sempre rivendicato la sua operazione come legittima: “Mi ero basato sulle dichiarazioni della Bundesbank, che dicevano che la banca tedesca non avrebbe sostenuto la valuta italiana. Bastava saperle leggere”. Soros, dunque, avrebbe soltanto anticipato, ancorché in modo traumatico, un inevitabile cambio di passo nella valutazione dell’effettivo valore di alcune divise sul mercato. Simili forme di previsioni, e le operazioni finanziarie che ne conseguono, hanno alle spalle una tradizione antica. “L’arte della speculazione” è il titolo di un libro dell’analista finanziario Massimo Intropido, nel quale viene raccontato il funzionamento del mercato del riso in Giappone tra XVIII e XIX secolo. Il mercato del riso, il Dojima, aveva la sua sede a Osaka, centro di scambio e di immagazzinamento del riso proveniente dalle campagne. L’importanza di questo mercato è evidente, se si pensa che proprio il prezzo del riso fosse il riferimento valutario del Giappone di allora. Il Dojima si configurava come una vera e propria sede di contrattazione: partendo da un prezzo di riferimento iniziale, i commercianti si scambiavano ricevute che corrispondevano a partite di riso (diremmo noi: dei titoli), cercando di arrivare a un prezzo condiviso. Se il prezzo raggiungeva una cifra concorde, il giorno dopo il mercato sarebbe ripartito da quel prezzo, altrimenti si sarebbe tenuto conto del prezzo di partenza della seduta. Intropido racconta a questo punto di un libro, piuttosto diffuso allora, chiamato “La fontana dell’oro”, che impartiva autentiche lezioni di speculazione e trading, con tanto di strategie di accumulo e di vendita, sulla base dell’andamento dei prezzi del mercato del riso. Insomma, già allora la speculazione veniva considerata come una legittima fonte di guadagno e degna di essere tramandata. Ma anche l’Occidente, in fondo, ha lasciato traccia di simili lezioni: maestro dell’arte della speculazione fu senz’altro, infatti, il filosofo Talete. Il filosofo è noto per due episodi: il primo, nel quale si racconta che cadde in una buca, passeggiando, mentre guardava il cielo; il secondo (basandosi forse proprio su quelle osservazioni stellari), per aver previsto un abbondante raccolto di olive, aver affittato a noleggio molti frantoi e aver ricavato un gran guadagno dalla spremitura. La storia di Talete riannoda senza dubbio il significato di speculazione con il suo etimo latino, cioè quello di “guardarsi attorno”, “esplorare”. Una parte della teoria economica, del resto, si è spinta ancora più in là, in un autentico apologo della speculazione, dichiarandone apertamente il ruolo sociale, ovvero quello di permettere l’emersione dei prezzi nascosti. Per Ludwig von Mises, la speculazione non farebbe altro, infatti, che anticipare i futuri cambiamenti dei prezzi. Di più: per l’economista austriaco, la speculazione sarebbe il vero motore di tutta l’attività economica, proprio perché essa è strutturalmente basata su un futuro incerto. Del resto, una netta distinzione tra investimento e speculazione è difficile da tracciare: quale investitore non spera di poter ricavare un guadagno dalla variazione favorevole dei prezzi dei propri investimenti sul mercato? Investopedia prova a inquadrare il concetto di speculazione, differenziandolo da quello di investimento, servendosi di tre caratteristiche fondamentali: la tipologia di asset, che devono poter essere facilmente scambiati e ricomprati (tipicamente nell’arco di pochi giorni o ore); la breve durata dell’operazione, che si associa anche all’alto livello di rischio (che diminuirebbe con investimenti su lungo periodo); e infine l’alto livello di leva finanziaria, cioè il ricorso a mirati strumenti finanziari, capaci di muovere voluminosi asset sottostanti con relativa facilità. Più in generale, si potrebbe dire che la speculazione è un’attività finanziaria, rapida e rischiosa, con una forte componente di previsione soggettiva. Un problema della speculazione è senz’altro connesso alla sua naturale capacita di sollevare in modo relativamente facile grandi quantità di investimenti; in altre parole, alla sua naturale propensione alla creazione di bolle speculative, alle quali seguono inevitabili crolli, eventi traumatici che portano con sé il rischio di produrre effetti sistemici, nonché danni economici collaterali. Sebbene sia un’attività fisiologica del mercato, non va dimenticato, infatti, che la speculazione resta un’attività rischiosa: sulla base della propria avversione al rischio, è giusto quindi prendere forme di precauzione. Non a caso, sia a livello istituzionale, sia al livello degli investitori privati, si è sviluppata una precisa strategia di immunizzazione: l’introduzione di limiti agli eccessi di ribasso e di rialzo degli asset. Questi possono essere fissati in automatico dalla società di gestione della Borsa – in Italia i limiti di variazione dei titoli sono +/- 10% –; o decise in modo estemporaneo dall’Autorità di settore. Nell’attività degli investitori sono ben note, invece, le formule di stop-loss e di take profit, la cui funzione è la medesima: fermare le perdite o il guadagno eccessivo, cioè bloccare sul nascere il formarsi di pericolose bolle speculative. Più che di cinismo, uno speculatore ha bisogno, quindi, di una grande dose di propensione al rischio, allettata dalla prospettiva di ingenti guadagni, dietro cui si cela la corrispondente prospettiva di forti perdite. Nulla di più però: non tocca a lui capire gli effetti del suo operato. Il compito di porre limitazioni dovrebbe spettare, più coerentemente, alle strategie di investimento dei singoli risparmiatori, ma soprattutto agli estensori delle norme messe a garanzia degli investitori. Norme che, in alcuni casi, trascurano proprio gli effetti sistemici e collaterali della speculazione. Insomma, per citare George Soros: “Gli speculatori fanno il loro lavoro, non hanno colpe. Queste semmai competono ai legislatori che permettono che le speculazioni avvengano. Gli speculatori sono solo i messaggeri di cattive notizie”.

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I mercati finanziari sono davvero efficienti?

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 06.09.2018

You can’t beat the market; ovvero: non c’è investitore che possa battere i mercati. Sembra un semplice slogan, una generica messa in guardia sulla complessità dell’enorme massa di transazioni sui mercati finanziari, che si stima siano ogni giorno più di un miliardo. In realtà, l’idea che i mercati non si possano battere (vedremo subito in che senso) è la logica conseguenza di un preciso modello economico. Parliamo della celebre “Ipotesi dei mercati efficienti”, formulata e sostenuta nel modo forse più incisivo da Eugene Fama, premio Nobel per l’economia. L’ipotesi è questa: i prezzi di mercato degli asset finanziari riflettono nel miglior modo possibile tutta l’informazione rilevante e disponibile sul loro valore. L’efficienza che prendiamo in analisi, in gergo, è detta efficienza informativa. Va detto che, sui mercati finanziari, esiste almeno un’altra ipotesi di efficienza, quella allocativa, che riguarda invece la distribuzione ottimale delle risorse. Dall’ipotesi dei mercati efficienti consegue che, a fronte delle informazioni disponibili, non esistono asset finanziari che, in un dato momento, siano sovra o sotto stimati. Pianificare una strategia di vendita o di acquisto, presumendo un’eventuale diminuzione di valore o apprezzamento dei singoli titoli, dunque, è inutile. O meglio: per perseguirne una in modo efficace, servirebbe una serie di informazioni, che tuttavia sono troppe e troppo frammentate. È per questo che, agli occhi degli investitori, l’andamento dei prezzi si presenta spesso come un cammino casuale (“random walk”). Ma cosa distingue il mercato finanziario da una semplice sala scommesse? I prezzi, per l’appunto: essendo i prezzi i risultati di un’infinita serie di interazioni tra operatori economici, sono proprio essi a incorporare la maggiore quantità di informazioni possibili e, dunque, a essere gli indicatori di valore più affidabili. Si badi bene, però: pur incorporando la maggior quantità d’informazione possibile e disponibile, i prezzi non per forza sono indicatori esatti del valore di un bene. Ulteriori informazioni, magari celate o di là da venire, infatti, potrebbero sommarsi a quelle di cui dispongono gli operatori e cambiare di colpo le carte in tavola. In altre parole: l’efficienza dei mercati non garantisce del tutto riparo, come tutti gli operatori ben sanno, dalla volatilità. Il corollario di quest’ipotesi, volendo essere coerenti, significherebbe bocciare una gestione attiva dei risparmi e optare per una forma passiva di investimento. In altre parole: meglio scegliere degli indici di un mercato che diano prospettive di crescita, piuttosto che creare fondi d’investimento trasversali. Detto ciò, l’ipotesi dei mercati efficienti resta non solo un’ipotesi difficile da verificare, ma anche un modello attorno al quale si è generato molto disaccordo. Una delle obiezioni più note è stata quella formulata da un altro premio Nobel, Robert Shiller, che ha analizzato il mercato immobiliare statunitense degli ultimi 150 anni. Nel grafico analizzato da Shiller sono evidenti almeno due impennate di valore: la prima, nel secondo dopoguerra e la seconda a partire dagli anni 2000. Nel primo caso (post 1945), Shiller metteva in relazione l’aumento dei prezzi delle case con il boom demografico ed economico di quegli anni: nulla di strano, dunque – un caso di scuola della legge della domanda e dell’offerta. Nel secondo caso (inizio anni 2000), invece, Shiller – che pubblicò lo studio nel 2003 – notò che il valore delle case stava inspiegabilmente salendo a una velocità troppo rapida. La risposta, soltanto ipotizzata, fu confermata a distanzia di qualche anno: come aveva previsto, si era trattato di una gigantesca bolla immobiliare. Il secondo esempio è tratto da un libro di un terzo Premio Nobel, Richard Thaler, un economista comportamentale. Thaler, come esempio emblematico per confutare l’ipotesi, prende in considerazione l’andamento di un fondo mutualistico di nome CUBA, composto per il 69% da asset americani e per la restante parte da fondi stranieri. Curiosità, ma essenziale per la nostra storia: nonostante il nome, tra il fondo e l’omonima isola non è mai intercorsa alcun tipo di relazione commerciale o d’investimento. Ebbene, a seguito dell’annuncio, da parte del Presidente americano Obama, dell’allentamento dell’embargo nei confronti di Cuba, il titolo omonimo subì un apprezzamento improvviso e del 70%. Gli investitori si erano lasciati clamorosamente trarre in inganno dal semplice nome del fondo. Gli esempi presi in considerazione parlano chiaro, e dimostrano che i prezzi non sempre incorporano tutte le informazioni a disposizione (nel primo caso, la presenza di indebitamenti molto rischiosi), né quelle rilevanti (nel secondo, il fatto che gli investimenti non avessero niente a che fare con l’isola di Cuba). Eppure, se è vero che queste e altre osservazioni hanno portato a ridimensionare la presunta efficienza informativa dei mercati, per alcuni l’ipotesi nella sua sostanza continua a reggere: in fondo, come ha spiegato ancora Eugene Fama, si tratterebbe “soltanto” di anomalie temporanee. Recuperando i grafici degli andamenti proposti dai due economisti è evidente, dice Fama, che sul lungo periodo sono proprio i mercati, per quanto in modo improvviso, a riequilibrare il valore degli asset e farli attestare a livelli più ragionevoli.Per Fama, ad esempio, il repentino sgonfiarsi della bolla delle dotcom riflette in pieno questo meccanismo di aggiustamento: le aspettative ottimistiche su numerose aziende furono duramente ridimensionate, tanto da renderne le azioni carta straccia; ma il crollo attuò una selezione necessaria, dalla quale emersero i grandi colossi dell’informatica. Il processo di price discovering, infatti, per quanto imperfetto e non immediato, sfrutta l’attività collettiva degli investitori, è capace di processare enormi quantità di segnali informativi e spesso corregge le aspettative di rischio o di guadagno degli operatori. Non c’è dubbio, quindi, che nella sua complessità il mercato, rispetto ai singoli investitori, attraverso il sistema dei prezzi, rappresenti un sistema informativo più efficiente.Eppure, la questione non finisce qui: a complicare la situazione, nel meccanismo della formazione dei prezzi si inseriscono, infatti, molti elementi che l’economia finanziaria ha a lungo tempo disconosciuto; si tratta di atteggiamenti umani, studiati dalla scienza cognitiva e caratterizzati come vere e proprie distorsioni del nostro modo di ragionare, dei bias cognitivi che sono oggetto di studio da parte della finanza comportamentale (la buona notizia, per quanto essi rappresentino comportamenti del tutto controproducenti nella gestione dei nostri risparmi, è che il loro riconoscimento rappresenta il primo passo verso un potenziale disinnesco).Aldilà di ciò, resta comunque un’ultima questione da capire: è possibile accompagnare i mercati nel loro percorso di efficienza informativa? O meglio: è possibile creare delle condizioni per ottimizzarne le dinamiche? La risposta è sì: grazie alla facilità delle comunicazioni i mercati stanno già sperimentando, in verità, forme di crescente efficienza informativa. Non solo: a seguito del Sarbanes-Oxley Act del 2002, un sistema di leggi che obbligava alcune categorie di imprese quotate a rendicontare più frequentemente i loro bilanci e certificarsi sulla solidità patrimoniale, il relativo mercato delle equity ha subito una drastica riduzione della volatilità. La morale è che rendere i mercati sempre più trasparenti, rischiarando le molte zone d’ombra che ancora restano, potrebbe fare sì che l’ipotesi dell’efficienza informativa dei mercati si avvicini a diventare una realtà di fatto e un modello interpretativo sempre più valido attraverso il quale orientare i propri risparmi.

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Rischio e azzardo due aspetti che un investitore deve ben distinguere

Scritto il 20.08.2018

Si dice “giocare in borsa”, ma è possibile anche “giocare d’azzardo”, ed esiste una convinzione diffusa che tra le due attività non corra una grande differenza. Azzardo deriva da un antico termine arabo (az-har), che significa “dado”. Il gioco d’azzardo viene definito come un’attività che prevede l’impiego di risorse per l’ottenimento di un premio più o meno aleatorio che, generalmente, è ottenuto in modo indipendente dalle capacità del giocatore. Per quanto l’attività del risparmiatore – definita prima, con una scorretta e brutale metonimia, come “gioco in borsa” – e quella del giocatore d’azzardo siano tecnicamente accomunate dalla scelta di accettare una certa dose di rischio, esistono aspetti delle due attività che vanno però tenuti ben distinti. Quello d’azzardo, nella teoria dei giochi, è innanzitutto definito come un gioco iniquo; il monte premi, infatti, o non è interamente ridistribuito tra i partecipanti, oppure le probabilità di vincita sono calcolate così da avvantaggiare matematicamente il banco del casinò o il concessionario del gioco. Le slot machine, per esempio, sono impostate così da restituire ai giocatori, in media, il 75% del denaro che viene introdotto. E lo stesso dicasi – con tassi di restituzione che possono variare – per roulette, blackjack, craps, video poker o baccarat. L’azzardo, del resto, è rischioso per definizione. Perciò, la domanda giusta da porsi è: il gioco vale davvero la vincita che promette? A giudicare dai ricchi monte premi e dall’indotto annuo (in Italia circa 10 miliardi di introiti legali), sembrerebbe di sì. Eppure, azzeccare un ambo al lotto, che dà diritto a un premio di 250 euro, a fronte di 1 euro di spesa, solo all’apparenza è una buona idea: la probabilità è di 0,25%, cioè una su 401. Prendiamo allora il popolare Gratta e Vinci. Bene, giocando 5 euro è vero che se ne possono vincere cento volte tanti, ma la probabilità è dello 0,025%. Cioè una su 4mila. E allora, alziamo la posta in gioco: consideriamo il Superenalotto. La probabilità di vincere il montepremi, che mentre scriviamo ha raggiunto quota 24 milioni di euro, è una su 622 milioni. Già, ma come ci si può figurare una simile probabilità? Proviamo a usare un’immagine suggerita dal matematico e ricercatore del Politecnico di Milano, Marco Verani. Immaginiamo di riempire uno stadio da calcio con qualche centinaio di milioni di palle da tennis gialle, diciamo 622 milioni; poi, aggiungiamone una rossa nel mucchio. La possibilità di azzeccare tutte e sei le combinazioni al Superenalotto, fare Jackpot, è pari alla possibilità di estrarre, bendati, la pallina rossa. Insomma, per stare sicuri dovremmo estrarre tutte le 622 milioni di palline, ovvero, tornando al celebre gioco a estrazione: spendere 622 milioni di euro, per essere certi di guadagnarne 24. La probabilità, la scelta e soprattutto il rischio, come dicevamo, sono elementi che l’azzardo condivide senza dubbio con il mondo degli investimenti; ma è proprio qui che cominciano le differenze. La strategia di riduzione del rischio nel gioco d’azzardo è una sola: giocare il meno possibile o, anzi, non giocare affatto. Più si gioca, più si rischia. Negli investimenti, invece, è quasi il contrario. Esiste la possibilità, infatti, di costruire portafogli composti da molteplici investimenti tra loro correlati – cioè: portafogli diversificati – in modo da mitigare i rischi legati alla volatilità dei singoli titoli. E servendosi di indicatori di rischio (ad esempio l’indice di Sharpe,), si può valutarne perfino la “convenienza” in funzione del livello di rischio per cui si è optato. Investire, dunque, non è esattamente un costante all-in ad occhi chiusi. Inoltre: giocare d’azzardo, nel tempo, aumenta solo la probabilità di perdere; nel mondo della finanza, invece, le regole si capovolgono. In una serie storica dell’indice S&P500, pubblicata dall’economista Robert Schiller su Open Data, commentata da Riccardo Tedeschi, e che copre un arco di 145 anni (1871-2016), è possibile dimostrare che più si allunga il tempo degli investimenti, più questi diventano redditizi: investimenti a 20 anni hanno portato a rendimenti sempre positivi; a 10 anni è successo quasi nove volte su dieci; a 5 otto volte su dieci; e solo gli investimenti di un solo anno hanno portato a un rischio più alto, due volte su tre – un rischio ben inferiore, comunque, alla media di quello che corre chi gioca d’azzardo. C’è di più, però. In generale, i mercati finanziari non solo possono rivelarsi, per così dire, dei giochi equi, ovvero capaci di ridistribuire per intero l’utile di chi ha investito: nella maggioranza dei casi, si dimostrano remunerativi. Lo ha dimostrato la London Business School of Economics, in uno studio sul mercato azionario USA e, più nello specifico, sull’equity risk premium, cioè il premio del rischio azionario, calcolato come differenziale tra i tassi d’interesse di questi ultimi e il rendimento dei titoli di stato, considerato come sicuro. I dati analizzati registrano una crescita annua del mercato del 7,5%, con una prevalenza di anni positivi (68%) su quelli negativi. Restando in Italia, del resto, anche Piazza Affari, che pure negli ultimi 10 anni ha vissuto momenti di luci e ombre – l’indice Mib deve ancora recuperare la soglia persa dopo la crisi del 2007 – ha reso, negli ultimi 40 anni, un rendimento del 47% sugli utili investiti. E allora: perché continuare a preferire il gioco d’azzardo al risparmio gestito? Gli esperti sostengono che la forza del gioco d’azzardo stia nelle scariche di adrenalina prodotte dalla sfida che producono le situazione di rischio. E il gioco d’azzardo, che mette in pericolo solo il portafoglio e non la vita, e promette in certi casi vincite stratosferiche, ben si presta a questo genere di assuefazione. Ma lasciamo la questione agli psicologi comportamentali e torniamo al mondo degli investimenti. Già, perché anche in quel caso l’azzardo esiste eccome ed è semplice: investire senza la giusta consapevolezza significa, di fatto, giocare d’azzardo. E allora il primo investimento che ci sentiamo di consigliare è quello di investire sulla competenza e la professionalità di un consulente. Del resto: preferireste affidare i vostri risparmi a un investitore di professione o alla roulette di un casinò?

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Il Cigno nero dei mercati finanziari

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 21.07.2018

Il 17 maggio 2007, Ben Bernanke, allora governatore della Federal Reserve, tenne a Chicago l’annuale conferenza “Bank Structure and Competition”. Bernanke, in quell’occasione, rassicurò il suo uditorio su un punto specifico: sebbene sorvegliato speciale, il mercato dei mutui sub-prime non avrebbe dovuto creare preoccupazioni; in fondo, pur essendo rallentata la crescita del prezzo delle case, i dati del mercato immobiliare e quelli macroeconomici erano positivi; la situazione finanziaria degli istituti di credito, stabile. Lo stesso concetto fu ribadito dal Chairman a Cape Town, un mese più tardi, durante una conferenza monetaria internazionale. In ogni caso, rassicurava Bernanke, l’impatto sull’economia reale di un’eventuale crisi della finanza sarebbe stato limitato. Esattamente un mese prima di quel 17 maggio, il matematico e trader Nassim Nicholas Taleb dava alle stampe il suo libro “Il Cigno nero”, destinato a diventare un best-seller. La tesi del libro, per quanto riccamente argomentata, poteva essere riassunta così: le nostre vite sono strutturalmente interessate da eventi, detti “Cigni neri”, la cui probabilità è per noi talmente bassa da non essere presa in considerazione seriamente, sebbene il loro impatto sulle nostre vite sia potenzialmente enorme. Per dirla in un altro modo: i Cigni neri sono oscillazioni statistiche tanto rare quanto impattanti sulla realtà concreta. Ecco: per molti analisti, la crisi cominciata nell’agosto del 2007 non è stata nient’altro che l’arrivo di un Cigno nero. La Frankfurter Allgemeine Zeitung ha di recente riproposto le dichiarazioni rilasciate da un amministratore delegato di una banca d’affari coinvolta dalla crisi, a poche settimane dal suo sfiorato fallimento. In particolare, alcuni fondi della banca registrarono, nel giro di diversi giorni consecutivi, perdite di una media del 27%. Un disastro. Il dirigente si difese, dicendo che si trattava di un evento con una scala di probabilità di 25 sigma, calcolato ex-post sulla base dei modelli di rischio interni. Il valore indicato, però, è mostruosamente alto. Per dire: una probabilità di 5 sigma viene assegnata a fenomeni così lontani dall’accadere, da essere un’unità di misura per dimostrare, con una doppia negazione, la massima improbabilità di errore di un’ipotesi scientifica. Una probabilità così bassa, come quella indicata dal banchiere, per dare un’idea, sarebbe associabile alla possibilità di vincere per venti giorni consecutivi alla lotteria. La domanda è spontanea: i Cigni neri sono davvero così imprevedibili? O sono i nostri modelli di rischio a essere difettosi? Forse, a essere vere sono entrambe le cose. Prendiamo due esempi di Cigni neri, noti e riconosciuti come tali: l’11 settembre 2001 e la catastrofe nucleare di Fukushima. Ora, che i modelli di rischio legati agli investimenti non prevedessero queste determinate sciagure appare ragionevole, se non ovvio (e, del resto, se si fossero potuti prevedere, non sarebbero accaduti). Ad ogni modo, l’impatto di entrambi gli eventi fu considerevole, anche nel mondo finanziario: dalla sua riapertura (restò chiuso quel giorno), il Down Jones perse il 14% nel giro di una settimana, mentre per Tokyo il tonfo della borsa fu del 10% il giorno stesso del disastro. Che dire, invece, delle recenti crisi finanziarie, spesso additate quali Cigni neri? Sull’impatto reale degli eventi non si discute: a seguito dello scoppio della bolla delle dot-com, da oltre 5.000 punti il Nasdaq crollò, in circa tre anni, a poco più di 1.100 (quasi -80%) e il Down Jones scese da 11.000 punti a 7.500 (-32%). A causa della crisi del mutui sub-prime, nel 2008 la Borsa americana dimezzo il proprio valore; quella europea perse circa 4mila miliardi di euro. Ma il peggiore crollo registrato da Wall Street in un solo giorno fu il 19 ottobre 1987, il famoso lunedì nero. Nel giro di una sola seduta, perse il 22% e furono bruciati 500 miliardi di dollari. Bene: lo stesso giorno il giovane Nassim Taleb, sì il futuro autore del “Cigno nero”, guadagnò 60 milioni di dollari (o forse ancora di più: 70 o 80; Taleb, incredibilmente, non ricorda più). Eppure, come ammise, gli era stato impossibile prevedere quel crollo; piuttosto, aveva scommesso sul fatto che un simile evento sarebbe potuto accadere. Una chiave di lettura che fa chiarezza su questi fatti è una frase contenuta nel libro di Taleb: “Dato che i Cigni neri sono imprevedibili, dobbiamo accettare la loro esistenza, invece che tentare ingenuamente di prevederli”. Il punto, per Taleb, non è prevedere un evento determinato, ma considerarne la possibilità all’interno del proprio modello di rischio. Occorre però, a questo punto, allargare la prospettiva e concentrarci sull’ultima parte dell’affermazione contenuta nel libro. Da una parte, ci sono gli eventi imprevedibili, i Cigni neri. Ma dall’altra è evidente che il problema delle crisi finanziarie è anche – ed forse il più grave – l’eccesso di fiducia, ingenua appunto, riposta nelle proprie previsioni: la falsa convinzione di una crescita dei mercati o di un loro buon andamento non accomuna forse molte delle recenti crisi finanziarie? Il risultato è che la convinzione nelle proprie previsioni crea comportamenti incoscienti e irresponsabili. Salvo poi, in caso di smentita e fallimento, per giustificarsi, chiama in causa proprio i Cigni neri. In realtà, anche in riferimento agli esempi fatti, si tratta ben più spesso di un caso di scuola, a cui diamo il nome di bolla finanziaria. Su un punto, Taleb ha senza dubbio ragione: quando si investe (e non solo), è sempre necessario formulare delle strategie di prevenzione dai molti, pericolosi e ipotetici Cigni neri. Ma con ciò, gli investitori dovrebbero comunque fare attenzione a non confondere gli eventi imprevedibili dai prevedibilissimi esiti di comportamenti incoscienti e poco professionali, basati su modelli di rischio incompleti. La morale un po’ amara è che è difficile guardando al futuro e fare previsioni con certezza; o meglio, che seguirle in modo acritico significa prestare il fianco a situazioni di rischio davvero elevato. Insomma, investire significa, da un certo punto di vista, navigare a vista. E per farlo serve quella cautela responsabile che solo l’esperienza e la competenza nel settore può dare.

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E' sicuro investire nei beni rifugio?

Scritto il 10.07.2018

“Safe haven”, un porto sicuro: l’espressione inglese di “bene rifugio” rende meglio dell’equivalente italiano. Un bene rifugio rappresenta un’ancora di valore durante una tempesta finanziaria o, fuor di metafora, è un bene che ha un valore intrinseco, relativamente costante nel tempo. La garanzia del suo valore sta proprio nel fatto che questo asset incorpora fisicamente un valore: l’oro e gli altri metalli preziosi, i diamanti, ma anche i beni immobili o le opere d’arte sono beni che, si presume, abbiano un valore in sé. Il ruolo di un bene rifugio in un portafoglio è chiaro: diversifica il rischio. In particolare, costituisce uno strumento per stemperare le perdite imputabili ai cali sistemici del mercato. All’interno di un portafoglio, i “porti sicuri” si contraddistinguono, infatti, per una mancata correlazione dal resto del paniere di titoli o, al più, per una correlazione negativa. Consideriamo il caso dell’oro: dal 2007, anno della crisi, l’oro ha cominciato una crescita continua, passando dai circa 650 dollari l’oncia (31 grammi) di allora, ai quasi 2mila del 2011. La crisi economica globale e il conseguente deprezzamento del dollaro hanno scatenato una corsa all’oro, mostrando una correlazione negativa tra il metallo prezioso e la valuta USA. Controprova: la ripresa economica ha fatto sì che il prezzo dell’oro scendesse ai circa 1.200 dollari l’oncia di oggi, sebbene proprio le politiche monetarie americane, che mantengono il dollaro abbastanza debole, fanno sì che l’oro resti quotato a livelli superiori rispetto al 2007. Investire in oro non significa per forza acquistare fisicamente dei lingotti. Esistono strumenti, come gli Etc o gli Etf, che replicano il valore dell’oro. Oppure, si possono sottoscrivere dei contratti derivati che hanno la materia preziosa come credito sottostante. Investimenti allettanti, liquidi, ma più soggetti a rischio insolvenza da parte dell’emittente. In altri termini: non paragonabili all’acquisto materiale di oro. Sia chiaro, chi si aspetta di trovarsi con dei lingotti in mano, resterà deluso: i lingotti vengono lavorati da produttori e commercializzati da soggetti specializzati, i quali se ne fanno garanti e ne certificano la saggiatura. Proprio perciò, per non dover procedere a nuove saggiature prima di rimetterli sul mercato, vengono conservati in appositi caveau. Gli istituti di credito e la Banca d’Italia, peraltro, sono i canali ufficiali più affidabili per investire nel metallo prezioso. Gli investitori, del resto, possono guadagnare dall’oro solo sui dividendi incassati nel momento della vendita: l’oro, di per sé, non produce ricchezza se non grazie alla sua rivalutazione. E un discorso simile, per certi versi, vale anche per gli investimenti negli immobili. Chi investe in immobili può farlo in modo diretto, cioè acquistarli e puntare sulla rivalutazione degli stessi, con l’unica differenza che l’immobile può dare, se affittato, rendite costanti. Ma anche per gli immobili, gli investimenti possono essere indiretti, cioè non comportare l’acquisto fisico del bene; si può investire, infatti, in società che gestiscono immobili o fondi immobiliari, nonché specifici strumenti finanziari, ancora gli Etf, che riproducono gli indici del mercato di riferimento. Anche certe valute o i titoli di alcuni Stati possono essere considerati dei beni rifugio. Per i titoli di stato, vale la regola generale per la quale è difficile che uno Stato fallisca; per le valute, in verità, su tutte, a farla da padrone è il franco svizzero (che attualmente vale 1,16 euro circa), la cui volatilità resta estremamente limitata. Il Bund decennale tedesco, che dai rendimenti sotto l’1% è arrivato ad avere un tasso negativo, viene considerato al momento, tra i titoli di Stato, il miglior investimento rifugio, poiché a fare da garante è nient’altro che la Germania, prima economia europea, molto attenta a contenere e ridurre il proprio debito pubblico. Investire in diamanti meriterebbe un discorso a sé. Giusto lo scorso anno, la Consob ha ammesso che l’acquisto dei diamanti può assumere “le caratteristiche di un’offerta di un prodotto finanziario”, ma anche che la mancanza di una regolamentazione finanziaria mette gli investitori in balia di possibili costi occulti, commissioni elevate, difficoltà nella rivendita degli stessi, dispendiosi vincoli di godimento del bene. Insomma: il problema non sono tanto i diamanti, il cui valore resta alto e continua a crescere, ma la mancanza di trasparenza e chiarezza del loro mercato. Delle considerazioni ancora valide sull’arte come bene rifugio sono state fatte in un libro del 2008, “Lo squalo da 12 milioni di dollari” da Donald Thompson, che mette in guardia i potenziali investitori. Innanzitutto, se si investe in arte, lo si fa generalmente sul mercato dell’arte contemporanea, dato che la maggior parte delle opere precedenti sono già state ripartite tra i collezionisti e i musei. Nel mercato dell’arte contemporanea, però, le opere poco costose (che valgono cioè qualche migliaio di dollari al massimo) nell’80% dei casi perdono quasi tutto il loro valore e non vengono rivendute. Avventurarsi sulle opere molto costose, dai 100mila dollari in su rischia di trasformarsi, poi, in un altro boomerang; le case d’asta rifiutano, infatti, i 4/5 delle opere che vengono loro proposte. Risultato: rivenderle significa svenderle.

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Sceriffi e regole nel mondo della finanza

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 27.06.2018

Se la finanza non ha regole, come li spiegate i 52 procedimenti sanzionatori, i 54 provvedimenti di sospensione e le 28 radiazioni dall’Albo consulenti finanziari, avvenuti in Italia soltanto nel 2017? I dati sono di Paolo Ciocca, commissario Consob, resi pubblici da una sua relazione che illustra il lavoro dell’autorità di vigilanza, avvenuta in sinergia con l’Organismo (anch’esso di vigilanza) Consulenti Finanziari (OCF). Di più: «nel 2017 gli intermediari sanzionati dalla Consob per violazioni inerenti i servizi di investimento – ha scritto Mario Monti sul Sole 24 Ore – sono stati 15 a fronte dei 10 del 2016, i manager coinvolti sono stati 282 rispetto agli 80 del 2016. Infine, le sanzioni irrogate sono state 11,8 milioni di euro a fronte dei 0,8 milioni nel 2016». Non da ultimo, per quanto riguarda la vicenda dei derivati Alexandria e Santorini, ancora una volta Consob ha, da poco più di una settimana, comminato una multa da 2,3 milioni a Mps e ai suoi ex vertici, senza risparmiare gli operatori coinvolti di Nomura e Deutsche Bank. Se in economia, fidarsi è bene, sui mercati finanziari poterlo fare è fondamentale. Per dirla con Kennteh Arrow, Premio Nobel per l’economia nel 1972: «La fiducia è estremamente efficiente; fa risparmiare la fatica di dover attestare l’affidabilità delle parole di qualcuno. Purtroppo, però, è un bene che non si compra facilmente. E se lo devi comprare, già sorgono dei dubbi su quello che hai comprato». La premessa è necessaria per ricordare che dietro ogni transazione c’è un atto fiduciario. E ciò vale, a maggior ragione, se ci si trova sul mercato finanziario, dove il denaro è scambiato con promesse: di possibile o probabile guadagno, certo, ma comunque promesse. Per prima cosa, serve quindi avere fiducia nel sistema. Come ottenerla? Semplice: se il sistema ha delle regole, deve dare prova di saperle far rispettare. E il ruolo delle autorità di vigilanza è proprio questo. In Italia, il mercato finanziario è regolato dal Testo unico della finanza (Tuf). Il testo stabilisce il ruolo degli arbitri nazionali del mercato finanziario e fissa i loro i macro-obiettivi: la trasparenza del mercato, la tutela degli investitori e l’ordinato svolgimento delle negoziazioni. Gli attori in questione sono la Banca d’Italia, il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) e, naturalmente, la Consob (Commissione nazionale per le società e la borsa). Partiamo da quest’ultima: alla Consob spetta il compito di controllare la trasparenza e la correttezza dei comportamenti degli operatori. La Banca d’Italia vigila sulla stabilità patrimoniale degli operatori. Al MEF spettano invece competenze in materia di Mercati all’Ingrosso di Titoli di Stato. Per completare il quadro, vanno citate anche l’Ivass, l’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo, e Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione. Per ammissione delle autorità di vigilanza stesse, la stratificazione normativa impedisce tuttavia una netta distinzione dei loro compiti: le Sgr, per esempio, sanno bene di dover essere autorizzate dalla Consob e di dover ricevere da questa i propri profili organizzativi essenziali; allo stesso modo, i soggetti che fungono da controparti centrali devono ricevere l’imprimatur da parte della Banca d’Italia. A complicare la faccenda, si aggiunge l’ESMA, l’autorità di vigilanza europea, che redige le linee guida comunitarie in materia di sorveglianza finanziaria. Inoltre, prerogativa dell’ESMA è anche quella di valutare i rischi e la stabilità di alcuni mercati, ma anche di mettere sotto la propria lente specifici enti finanziari. Nell’ambito della vigilanza sui mercati, in Italia, regna quindi un certo disordine e non manca chi rimprovera alle autorità una mancata definizione chiara dei profili operativi: in Inghilterra, per fare un esempio, la Prudential regulation Authority controlla esclusivamente il “polso” agli intermediari finanziari, cioè la loro salute patrimoniale; la Financial Conduct Authority ne verifica il corretto comportamento sui mercati. Le inefficienze dovute alla mancata separazione sembrerebbero però avviarsi a una prossima risoluzione: attraverso un nuovo accordo quadro, è stata istituita un’intesa tra la Consob e la Banca d’Italia (i maggiori player della vigilanza) «per la collaborazione e il coordinamento nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e di risoluzione». Il che significa anche, per dirla in modo un po’ tranchant, evitare di pestarsi i piedi nello svolgimento delle proprie attività. L’idea principale è quella di operare in un quadro di riferimento comune (evidentemente ancora da definire), mettere in condivisione banche dati e modelli operativi, nonché l’idea di aprire le porte ai Comitati di contatto, che consentirebbero un processo di razionalizzazione grazie alle comunitarie Istituzioni superiori di controllo e la Corte dei conti UE.  D’altro canto, le novità più rilevanti riguardanti le autorità di vigilanza risalgono a Mifid 2. E si tratta, per la verità, di aspetti molto rilevanti: Esma, Banca d’Italia e Consob possono infatti intervenire su un punto delicato e centrale, quale è l’assegnazione ai risparmiatori di titoli ad alto rischio, bloccando alcuni prodotti finanziari prima della loro immissione sul mercato. Un’arma non da poco (definita “bazooka”) nelle mani delle autorità di vigilanza, che – a tutela dei risparmiatori – hanno cominciato a imporre il proprio veto su prodotti valutati non solo come tossici, ma anche opachi, poco trasparenti, e che sfruttano quell’asimmetria informativa che tanto caratterizza gli abusi di mercato (leggi alla voce: insider trading). Si è detto che la fiducia passa attraverso la capacità di un sistema di far rispettare le proprie regole. Se è vero, non meno importante è la necessità di conoscerle, queste regole. E non solo, si badi bene, da parte di chi svolge le attività di controllo, che è scontato: ma anche e soprattutto da parte dei risparmiatori. Che senso ha, del resto, imporre la massima trasparenza nelle attività finanziarie, se in Italia regna, nel settore, un alto livello di analfabetismo? Per Consob il 40% degli investitori non sa valutare con consapevolezza le sue scelte, solo il 30% capisce il valore di un portafoglio diversificato e meno del 20% della popolazione saprebbe dire cos’è il rischio di mercato. Come ha ricordato Mario Nava, presidente Consob, c’è molto da fare e il compito, in parte, spetta ancora e proprio alle autorità di vigilanza: armandosi in questo caso non di sanzioni, ma di pazienza e vestendo i panni non di “sceriffi”, ma di affidabili divulgatori.

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Chi e cosa sono i mercati finanziari

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 18.06.2018

Esiste un’industria che vale ogni anno quasi 900 trilioni di dollari. Quest’industria, che non produce manufatti o eroga servizi, investe circa 600 trilioni di dollari nel proprio settore e 280 in quasi tutti i restanti. L’industria di cui stiamo parlando è l’industria finanziaria. Per dare un’idea delle dimensioni, basti dire che nel 2017 la finanza che investe nell’impresa reale ne ha sorpassato il valore fatturato: il Pil mondiale, 76 trilioni di dollari, è stato superato da quanto valgono le imprese sul mercato finanziario; la loro capitalizzazione, infatti, ammonta a ben 77 trilioni di dollari. L’industria finanziaria lavora una materia prima precisa: il denaro. E, come si sa, il denaro può assumere forme molto diverse: i mutui, i prestiti, i titoli, le azioni, le obbligazioni, le assicurazioni o la galassia dei prodotti derivati. Ebbene, il mercato finanziario non è altro che lo spazio dove il denaro, sotto queste forme, viene scambiato. Complice la facilità negli scambi, il mercato finanziario ha conosciuto una progressiva liberalizzazione; difficilmente conosce una qualche barriera geografica e doganale. Oltre al fatto di costituire un sistema davvero globalizzato: per fare un esempio, è più semplice trovare un paese senza una Borsa valori (meno di 30 in tutto il mondo), che il contrario. Il mercato primario è la fucina dei prodotti finanziari di base, in particolare le azioni e le obbligazioni. Se questa fase consiste nella lavorazione della “materia prima”, le ulteriori raffinazioni e le diversissime combinazioni possibili, nonché lo scambio avvengono sul mercato secondario e sulle piattaforme non regolamentate (Over the Counter). La prezzatura degli asset finanziari, che avviene in prima battuta in sede di immissione, sul mercato secondario subisce invece continue fluttuazioni. Per capire la volatilità dei prezzi sul mercato finanziario, bisogna fare entrare in scena i suoi attori e le loro strategie. Il mercato è formato da una pletora di operatori: società di risparmio, banche, svariati tipi di fondi, assicurazioni e figure professionali come consulenti, broker, dealer, market maker. Ebbene, il prezzo raggiunto nei fori finanziari non è altro che il punto di arrivo giornaliero delle trattative e delle compravendite degli operatori. In altre parole, il prezzo deriva dall’atteggiamento degli operatori, che può essere restio o orientato alla compravendita dei titoli, con prospettive di breve o lungo termine, propenso o avverso al rischio: i prezzi sono quindi la risultante di un dato aggregato, che è la sommatoria di queste aspettative, delle condizioni di sottoscrizione dei contratti, delle singole strategie e tattiche delle centinaia di migliaia di operatori. Il valore a cui approdano i prodotti finanziari sul mercato secondario è tenuto in grande considerazione anche dal mercato primario; la liquidità di un titolo, del resto, influenza la prezzatura e la quantità di emissione dei prodotti futuri. In certi casi, le indicazioni possono essere lette come indicazioni sulle modalità di gestione di un’impresa; oppure, se chi emette i titoli è un ente istituzionale, sulle politiche economiche messe in atto o annunciate. Di qui, viene l’idea che il mercato fornisca delle vere e proprie sentenze sulle decisioni dei governi, che sia dotato di una volontà, capace di influenzare la scrittura delle agende finanziarie dei governi. Tuttavia, anche trascurando il fatto che, di mercato, non ce n’è uno solo, attribuire una volontà specifica a un sistema transnazionale e straordinariamente complesso di compravendita di strumenti finanziari è fuorviante. Non solo è difficile attribuire una coerenza unitaria alle decisioni prese (che sono nell’ordine delle centinaia di milioni) ogni giorno dagli operatori; ma risulta anche difficile credere che essi stessi abbiano il pieno controllo del sistema in cui operano. Uno studio pubblicato nel 2013 da due studiosi di trading (Glantz e Kissel) ha mostrato che l’85% dell’equity market statunitense è governato da algoritmi, mentre un report di Esma (autorità europea che vigila sui mercati) ha mostrato che il valore delle aziende che si occupano di trading ad alta frequenza, un sistema automatico di compravendita, rappresenta il 24% del mercato analogo europeo; ma se consideriamo il volume totale dei guadagni legati al trading ad alta frequenza, il volume d’affari arriva al 43% del valore complessivo. La finanza non è una scienza esatta, nemmeno se sono dei computer a effettuare le transazioni. Anzi: molti trader lamentano il fatto che i sistemi automatici si basano su andamenti storici che possono subire improvvise distorsioni, per esempio a fronte di eventi mai accaduti prima, come è stata, per esempio, la grossa liquidità garantita dalle Banche Centrali dopo il 2008. In ogni caso, si tratta di sistemi difficili da correggere una volta attivati. L’Italia, nell’ultimo mese, è stata interessata da alcuni di questi meccanismi: un caso emblematico ha riguardato, negli ultimi giorni di maggio, la vendita di Btp effettuata da fondi pensione asiatici (sic!); l’offerta al ribasso ha fatto scattare meccanismi di sell-off in altri fondi e provocato vendite automatiche anche da parte di investitori come Blackrock o Fidelity, che nell’Italia vedono una grossa prospettiva di guadagno e non di semplice speculazione. In calce al suo intervento durante il Consob Day 2018, Mario Nava, presidente dell’autorità di vigilanza, ha ricordato che «Il mercato non è un’entità astratta: il mercato siamo noi», rammentando quanto delicato sia il meccanismo fiduciario che regge l’intreccio tra imprese, intermediari finanziari e risparmiatori. Già, i risparmiatori: Assogestioni ha calcolato che il risparmio gestito degli italiani ammonta a più di 2mila miliardi di euro, in forte crescita sugli anni passati, ma comunque dietro all’Inghilterra, dove le masse di credito gestite sono più del doppio. Ed è proprio la presenza dei risparmiatori a inserire il tassello mancante nel complesso mosaico dei mercati finanziari, i quali costituiscono una struttura (non senza storture e ampi margini di migliorie), costruita proprio per ospitare l’enorme massa dei risparmi che, se non investiti, non portano beneficio all’economia reale e rischiano di perdere il loro valore.

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