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PERCHE' SBAGLIAMO SEMPRE QUANDO PRENDIAMO UNA DECISIONE

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  • Finanza Comportamentale
Scritto il 06.09.2019

  Ogni volta che decidiamo di investire qualche risparmio messo da parte, dovremmo avere una certezza: le nostre scelte finanziarie sono funestate da errori. Il problema, tuttavia, non è rappresentato dagli errori di natura tecnica: conoscere come si muoveranno i mercati nel breve termine è una “plausibile impossibilità”, per questo serve in primis diversificare e investire per corretti orizzonti temporali. La vera questione sta negli errori comportamentali: tranelli mentali pericolosi, dalle conseguenze talvolta letali. Come facciamo ad evitarli? Anzitutto è bene sapere che esiste una apposita disciplina – behavioral finance, la finanza comportamentale – che da molti anni si occupa di studiare il comportamento umano nelle scelte di investimento, riscontrando analogie bizzarre ed abitudini istintive, molto lontane dai canoni di razionalità (in gergo tecnico, biases). In sintesi, l’evidenza dimostra che siamo programmati per sbagliare. Nello specifico, sembrano esserci due filoni di errori che commettiamo sistematicamente. Da un lato gli errori cognitivi: il nostro cervello sembra avere difficoltà a gestire un numero complesso di informazioni, si impigrisce e cerca scorciatoie per arrivare velocemente ad una conclusione. In questo modo si genera un processo decisionale approssimativo, superficiale, non scientifico. L’abitudine di acquistare titoli del mercato domestico, ad esempio, è fortemente radicata in molti investitori nonostante sia palesemente incoerente con un corretto approccio alla diversificazione. Dall’altro lato, gli errori emotivi: spesso dimostriamo di decidere sulla base di rabbia, rimpianto, euforia, entusiasmo, preoccupazione e così via. Le emozioni, così importanti nella nostra vita quotidiana, ci portano il più delle volte a scelte affrettate ed istintive in finanza. Facciamo qualcosa perché ci fa stare meglio, non perché sia giusto farlo. E così, con metodo quasi infallibile, compriamo azioni quando proveniamo da prolungate fasi di rialzo, mentre le vendiamo nel bel mezzo di qualche turbolenza. Con conseguenze pesantissime. Insomma, il connubio di questi biases ha una implicazione certa: ci fa perdere soldi e serenità. Per ridurne l’impatto abbiamo due possibilità: •             Studiare a fondo i meccanismi di funzionamento del nostro processo decisionale (troppo faticoso…) •             Affidarsi ad un professionista che conosce accuratamente queste anomalie e che ci possa aiutare ad assumere i comportamenti corretti: il consulente finanziario (non male!) Diversamente, i più scettici potrebbero sperimentare personalmente gli effetti di questi errori. Il prezzo da pagare, tuttavia, potrebbe essere molto alto…

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FONDO PENSIONE VATAGGI FISCALI CERTI ANCHE RISPETTO AL TFR

Scritto il 04.04.2019

Manca una analisi importante e riguarda la diversa tassazione del TFR se trasferito al fondo o se si lascia in azienda”. La critica – costruttiva, e da noi molto apprezzata – è arrivata da un lettore dopo che abbiamo pubblicato la nostra breve guida al Trattamento di Fine Rapporto1. In realtà, questo è un tema di cui avevamo già in animo di occuparci. Lo abbiamo lasciato da parte solo perché, dal nostro punto di vista, meritava un approfondimento a sé. E infatti, eccolo qua (precisando fin d’ora che su questo, come su altri aspetti, torneremo ancora).   Calcolare la tassazione e il TFR netto Il TFR può essere lasciato in azienda o destinato a un fondo pensione. Quello lasciato nelle casse dell’azienda è soggetto a tassazione separata, che scatta non in fase di maturazione ma al momento della liquidazione, quindi alla cessazione del rapporto di lavoro. Il datore di lavoro opera come sostituto d’imposta e, dunque, non va a erogare al dipendente il Trattamento di Fine Rapporto lordo, ma il netto già tassato. Il TFR lordo – lo abbiamo già visto – si ottiene sommando quanto accantonato per ogni anno di lavoro, ovvero la retribuzione lorda annua divisa per il parametro fisso 13,5, più relativa rivalutazione. Partendo da ciò, come si calcola il netto? Lo vediamo prendendo come esempio il caso del signor Gino, che in 30 anni di servizio ha accantonato la considerevole cifra di 100 mila euro di TFR lordo. Per capire quanto gli spetta di netto, bisogna innanzitutto ricavare la base imponibile, ovvero la quota del lordo soggetta a tassazione secondo i vari scaglioni IRPEF. Tale base imponibile si ottiene moltiplicando il TFR lordo per il parametro fisso 12 e dividendo poi il risultato per gli anni di servizio. Quindi: (100.000*12)/30 = 40.000 La base imponibile ammonta a 40.000 euro. A tale somma va applicata l’aliquota IRPEF vigente nell’anno in cui il signor Gino chiede il suo TFR, che nel nostro caso è pari al 38%, posto che gli scaglioni sono questi: sotto i 15.000 euro: 23% da 15.001 a 28.000 euro: 27% da 28.001 a 55.000 euro: 38% da 55.001 a 75.000 euro: 41% oltre i 75.001: 43% Considerato, come ci hanno fatto notare i nostri attenti lettori (che ringraziamo), che per la fascia tra i 28.001 e i 55.000 euro l’aliquota IRPEF è fissata al 38% ma che l’applicazione avviene in maniera progressiva (il 27% vale cioè solo per la parte di reddito eccedente i 15 mila euro, il 38% solo per quella eccedente i 28 mila, eccetera), il risultato sarà il seguente: [(15.000*23)/100] + [(13.000*27)/100] + [(12.000*38)/100] = 11.520 In altre parole, su 100.000 euro di TFR lordo maturato e lasciato in azienda, il datore di lavoro – agendo da sostituto di imposta – dovrà versare al fisco 11.520 euro. E il TFR netto sarà così determinato: 100.000-11.520 = 88.480 Seguirà il ricalcolo da parte dell’Agenzia delle Entrate, in base all’aliquota media di tassazione dei cinque anni precedenti a quello in cui è cessato il rapporto di lavoro. E destinando il Trattamento di Fine Rapporto a un fondo pensione, invece?       TFR al fondo pensione: cosa cambia per il fisco? Oltre a maturare il diritto a una pensione pubblica, nel corso della sua vita lavorativa il dipendente può gettare le basi per una futura pensione integrativa. Per esempio, versando contributi a un fondo pensione chiuso o aperto, oppure investendo in un PIP o in un PAC. Tra i contributi che è possibile versare in un fondo pensione c’è, appunto, il TFR. Il Trattamento di Fine Rapporto versato dal 2007 in poi al fondo di previdenza e incassato al momento del pensionamento come rendita o come capitale sarà assoggettato a una ritenuta a titolo d’imposta del 15%. Ma attenzione: questa percentuale si riduce in funzione dell’anzianità di partecipazione al sistema della previdenza complementare. Se l’anzianità supera i 15 anni, l’aliquota diminuisce dello 0,30% per ogni anno di successiva partecipazione, fino a un massimo di 6 punti percentuali: con 35 anni di partecipazione, l’aliquota cala quindi al 9%. Anche volendo, dunque, il signor Gino non avrebbe fatto in tempo a salire su questo treno: ma ipotizzando che i suoi figli svolgano un lavoro dipendente che consenta loro di maturare nel tempo un TFR altrettanto corposo, forse per loro la destinazione del TFR al fondo pensione – salvo profonde revisioni legislative – potrebbe rivelarsi la scelta migliore.           I vantaggi fiscali della previdenza complementare Nell’ottica di spingere i contribuenti verso forme di previdenza complementari all’assegno pensionistico pubblico, il legislatore ha previsto anche altre agevolazioni fiscali, che è importante conoscere per fare le opportune valutazioni. In particolare, nella fase di accumulo esiste la possibilità di dedurre dal reddito complessivo annuo i contributi versati al fondo pensione – sottraendoli quindi dalla base imponibile per il calcolo dell’imposta dovuta – fino a un massimo di 5.164,57 euro. Ciò potrebbe consentire di scendere di scaglione IRPEF, a un’aliquota più vantaggiosa. Altra nota interessante: il Trattamento di Fine Rapporto destinato al fondo non concorre al limite della deducibilità fiscale, ovvero i 5.164 euro e rotti di cui sopra. Nel frattempo, i contribuiti che confluiscono nel fondo pensione generano rendimenti. I quali sono soggetti a un’imposta del 20%, a fronte del 26% previsto per la maggior parte delle forme di risparmio di tipo finanziario. Sulla parte di rendimento che deriva da titoli di Stato e similari la tassazione è anche più bassa, del 12,5%. Ultimo, ma non per importanza: il TFR versato nella forma pensionistica è al lordo delle imposte, quindi una volta investito nel fondo può contribuire in tutta la sua interezza a produrre rendimenti.   Nota a margine: rendimenti vs. rivalutazione Come abbiamo spiegato la volta scorsa, al 31 dicembre di ogni anno, tranne il primo, il TFR maturando subisce un ritocco al rialzo in base al tasso fisso dell’1,5%, cui si aggiunge il 75% dell’aumento dell’inflazione rilevato per l’anno precedente. Questa rivalutazione automatica è una certezza. Mentre il rendimento potenziale nell’eventuale investimento nel fondo pensione non lo è, ovviamente. Tuttavia, come si apprende dall’ultima relazione annuale della COVIP2, nell’arco dell’ultimo decennio, pur con tutta la crisi finanziaria intervenuta, il rendimento cumulato dei fondi pensione è stato decisamente più interessante della rivalutazione complessiva del TFR lasciato in azienda (complice anche l’inflazione anemica degli anni più recenti).   Fondi pensione e TFR: rendimento e rivalutazione a confronto Rendimenti al netto dei costi di gestione e dell'imposta sostitutiva, rivalutazione del TFR al netto dell'imposta sostitutiva  Rendimento netto fondi aperti Rendimento netto fondi chiusi Rivalutazione del TFR   Nel solo 2017, si legge nella relazione COVIP, “i rendimenti aggregati, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, sono stati in media positivi per tutte le tipologie di forma pensionistica, superando il tasso di rivalutazione del TFR”.    

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Alfabetizzazione finanziaria

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  • Consulenza finanziaria
Scritto il 18.10.2018

Problema della mancanza di alfabetizzazione finanziaria A ricordarci che il settore finanziario sia molto complesso ci hanno pensato le recenti crisi. Durante questi anni, studi, analisi e sondaggi effettuati sui non addetti ai lavori hanno dimostrato che il livello di alfabetizzazione finanziaria tra i cittadini è generalmente molto basso. E se pensiamo che questo è vero soprattutto tra coloro che sono stati maggiormente penalizzati da queste situazioni, si può ben intuire quanto il problema sia grave. Questa “ignoranza finanziaria” è dovuta anche al fatto che mercati e prodotti moderni sono molto più complessi rispetto al passato. Tuttavia entrambi questi fattori - crisi e complessità - hanno fornito le giuste motivazione alle persone di diventare sempre più coinvolti nelle proprie scelte di investimento e risparmio. L’educazione finanziaria: la base della soluzione al problema Ecco dunque che imparare a capire cosa significhino termini come “interesse composto”, “fattore di rischio” e “benefici della diversificazione” non è più un tabù. Già ma come fare per partire? Esistono delle figure adatte a questa attività, i consulenti finanziari, che a muoversi agevolmente in questo settore. Grazie a tali professionisti si potrà: • acquisire conoscenza per comprendere il complesso scenario in cui ci muoviamo e avere il quadro completo di tutte le variabili economiche che hanno impatti sulla nostra vita; • diventare consapevoli del contesto socio economico, delle esigenze famigliari e dei propri bisogni finanziari, considerando la situazione economica e patrimoniale e delle esigenze finanziarie presenti e future; • Imparare a pianificare investimenti e risparmi per raggiungere i propri obiettivi di vita definendo un percorso di valutazione delle risorse personali e familiari, con visione a lungo termine, monitorando e aggiornando il piano nel tempo; • Raggiungere il benessere economico e la stabilità finanziaria attraverso il proprio percorso pianificato attraverso azioni efficaci. Imparare a fare le scelte giuste, sopratutto con il denaro, è il miglior modo per garantirsi un futuro sereno.

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